VERDI Messa da Requiem soprano Marina Rebeka mezzosoprano Daniela Barcellona tenore Francesco Meli basso Alexander Vinogradov Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly
Milano, Basilica di San Marco, 23 maggio 2024
Sfogliando la cronologia delle esecuzioni scaligere del Requiem di Verdi, contenuta nel programma di sala, balza all’occhio che da oltre mezzo secolo questa partitura è dominio esclusivo del direttore musicale di turno: dopo Karajan negli anni ’60, infatti, essa è stata affidata ad Abbado dal 1971 al 1985, a Muti dal 1987 al 2001, a Barenboim dal 2009 al 2013 e a Chailly dal 2014 a oggi. Uniche, sporadiche eccezioni, le esecuzioni dirette da due musicisti, comunque di casa a Milano, come Maazel (1986: ma in Canada) e Mehta (2015: nella Basilica di San Marco). Insomma, il Requiem è senza dubbio il biglietto da visita sia dei complessi scaligeri che del loro direttore musicale, una sorta di partitura identitaria che ne verifica lo stato di salute: tanto più, naturalmente, se l’esecuzione viene programmata per celebrare i 150 anni della partitura, nel luogo in cui essa venne alla luce, la Basilica di San Marco a Milano (e nel medesimo programma si legge la recensione, acuta e lungimirante, che ne fece Filippo Filippi subito dopo quella storica serata). Riccardo Chailly dirige il Requiem di Verdi da quarant’anni, e anche per lui fa parte di un processo continuo di approfondimento e revisione: ma era la prima volta che lo dirigeva nella chiesa milanese (dove vari lustri fa propose la Passione secondo Matteo con la Verdi), senza troppe possibilità di lavorare sull’acustica, perché la frenetica attività della Scala ha concesso solo poche prove in teatro prima di partire per una mini tournée europea e una generale in San Marco la mattina stessa del concerto. Eppure fin dalle prime battute, la lettura del direttore milanese è risultata evidente: un tono severo eppure consolatorio, rasserenato, innervava l’iniziale invocazione del coro, quasi che lo spirito del Requiem tedesco di Brahms avesse pervaso anche le pagine verdiane. Grande attenzione ai dettagli, certo, ma anche una necessità, un’urgenza espressiva (ad esempio nell’“Oro supplex”) che si dispiegava nonostante tempi piuttosto comodi, quali si convengono all’acustica, pur eccellente, di una chiesa. Un viaggio di un’ora e mezza di musica, di grande intensità spirituale e di trascinante potenza emotiva, che culminava in un “Libera me” dove l’iniziale sentimento consolatorio sembrava travolto da un’attonita paura dinanzi al mistero della morte: e non pochi secondi di silenzio hanno lasciato il giusto spazio ad un lunghissimo, liberatorio torrente di applausi.
Con Chailly, il coro guidato da Alberto Malazzi e l’orchestra hanno dato ottima prova di sé stessi: così come i quattro cantanti coinvolti. La sostituzione di Freddie De Tommaso con Francesco Meli va definita manzonianamente (d’altronde, è al sommo Don Lisander che il Requiem è dedicato…) “provvida sventura”: il tenore genovese, impegnato in questi giorni nelle recite del Corsaro nel teatro della propria città, mi è apparso in forma smagliante, per la generosità di un mezzo di rara bellezza timbrica, pronto allo squillo così come a sfumature di rara intensità (non si dimentica la mezza voce a “Inter oves locum praesta”, in perfetta sintonia con Chailly). Anche il giovane e promettentissimo mezzosoprano Aigul Akhmetshina ha annunciato un’indisposizione, sostituita da Daniela Barcellona: una garanzia di serietà artistica, di intelligenza musicale che, nonostante il velluto vocale sia meno florido di un tempo, conduce il bicinium di ottava dell’“Agnus Dei” col soprano con una classe assolutamente ammirevole. Alexander Vinogradov ha la tipica emissione dei bassi russi, ma evita quasi sempre emissioni “di stomaco” ed è anzi ammirevole per la ricerca di un ventaglio espressivo e timbrico davvero ricco, mai affidandosi alla pura potenza vocale. Infine, dopo quattro mesi funestati da problemi di salute (ultima apparizione, la Medea qui recensita), tornava Marina Rebeka, visivamente emozionata: in una partitura così scomoda per il soprano, la Rebeka ha riaffermato la sua classe superiore, con un canto tecnicamente sempre controllatissimo, in un range dinamico giocato essenzialmente tra il pp e il mf, riservando la piena voce solo ai momenti di maggiore sfogo emotivo (il “Libera me”, soprattutto) e con una luminosità, una radiosità vocale che è riservata davvero solo a pochissime voci oggi ascoltabili.
Applausi lunghissimi per una serata davvero “da Scala”.
Nicola Cattò