VERDI La Traviata S.Ciani, A. Pirogova, M. Mennitti, J. Ysmanov, M. Kim, S. Consolini, A. Pellegrini, N. Donini, A. Patucelli; Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Stefano Rabaglia regia e luci Henning Brockhaus scene Josef Svoboda costumi Giancarlo Colis
Busseto, Teatro “Giuseppe Verdi”, 1° novembre 2014
Vi sono alcuni teatri baciati dalla fortuna. Non è solo questione di buona programmazione, è quel tanto di imponderabile (che non vuol dire casuale) per cui su certi palcoscenici molte serate riescono meglio che altrove, movendo spesso a vero entusiasmo: uno di questi teatri è il “Verdi” di Busseto. A volte l’esito sensazionale era semplice conferma di premesse eccezionali (la geniale Aida bonsai di Zeffirelli), altre una eccitante sorpresa. Penso a una singolarissima Alzira allestita da un teatrino tedesco di minima provincia, venuto a Busseto con armi e bagagli (e s’intendono una impegnatissima compagnia di canto, orchestra e coro stabili), e pubblico al seguito, per eseguire ed ascoltare il verdi più verace nel teatro della sua città natale (cosa significa essere innamorati dell’opera…): e furono emozioni a non finire.
Altre volte – ed è il caso della Traviata di cui parliamo – si son o create quelle condizioni speciali, per giungere ad esiti ben altrimenti esaltanti di quanto non fosse ragionevolmente preventivabile. Al fatto, Busseto, declinando l’ottobre appena scorso, ha ospitato nel suo incantevole teatrino il depresso Festival Verdi di Parma (son note le vicissitudini non solo finanziarie che han costretto a ridimensionarsi l’ambiziosa manifestazione parmense) per una Traviata, che poggiava sulle solide basi della collaudata regìa di Henning Brockhaus a sostenere l’eccitazione spoglia d’esperienza del manipolo di giovani cantanti reclutati tra i vincitori del Concorso Voci verdiane di Busseto, in collaborazione con la Scuola dell’Opera del Comunale di Bologna (presente con Coro ed Orchestra, stati appieno degni del loro blasone). Per la direzione musicale non si poteva scegliere figura più adatta di Stefano Rabaglia, per la lunga consuetudine al lavoro coi più giovani e per la sensibilità musicale davvero fuori del comune di questo maestro.
Rabaglia – in una bella intervista realizzata dal teatro Regio e disponibile su Youtube – ha affermato che cerano “tre buone ragioni per andare ad ascoltare quella Traviata: la Traviata, la Traviata e la Traviata”. Mi permetto di contraddirlo: le ragioni sarebbero state molte di più; ma se proprio si vuole limitarsi a tre, allora – mi scuseranno gli ottimi interpreti vocali se, per ora, li pospongo – queste, oltre al capolavoro verdiano in sé, erano senza dubbio la acuta lettura senza concessioni del regista e la direzione stessa di Rabaglia, rimeditata nel minimo particolare, ove l’eleganza non minava l’incisività dei segni, né la perentorietà dell’accento (sigilli di garanzia verdiana) sacrificava la cura del suono. Una direzione esemplarmente verdiana. Espressione rischiosissima, ma me la si conceda, ch’essa non è banale boutade: da diversi anni è capitato a tutti di ascoltare le opere di Verdi (e non solo sue, a dir vero) dirette da maestri anche insigni, che però poco o nulla avevano a che spartire con la drammaturgia verdiana e tentavano di darne letture sforzate in direzione, soprattutto, del dramma musicale wagneriano o improbabilmente sinfonistiche, o ancora (e La Traviata è una di quelle che più ne ha sofferto) inclini ad una psicanalizzazione delle partiture che, private della loro aura, sottratte alle regole del gioco, al vocabolario semplice del melodramma, sonavano esauste o vuote. Oppure, all’inverso, succede di trovarsi di fronte maestri perlopiù scadenti che, in nome di un (presunto) bel canto, annacquano Verdi in un Rossini appena appena aggiornato: nei due casi fidandosi di voci e di cantanti per un motivo o per l’altro insufficienti alla bisogna. Con Rabaglia il termometro è tornato a segnare la temperatura giusta.
Rabaglia ne ha indicato i gradi a chiare lettere anche nella succitata intervista, dicendo che «l’opera lirica nasce dalla parola» e che anche il lavoro di direttore musicale «trae nutrimento dalla parola scenica»; e il pensiero del direttore emergeva chiarissimo anche dalla sua concertazione, senza bisogno d’ulteriori esplicitazioni. Anche le scelte dei tempi erano da Rabaglia fondate sulla parola (e sul colore), e non è mai capitato di trovarne uno che mettesse in affanno i cantanti per la velocità o un eccesso di dilatazione. Molto interessante, al proposito, la caratterizzazione d’interi quadri attraverso l’adozione di andamenti particolari. Nei due quadri di festa i tempi erano tendenzialmente incalzanti (e spesso più accelerati del consueto), come a voler sottolineare l’ebbrezza febbrile e quasi frenetica di quelle orge (le proiezioni di nudi di donna sul fondale, dietro i celeberrimi specchi di Brockhaus, non faceva che certificare quanto già suggerivano gli arredi postribolari della scena e i siparietti erotici degli attori): così anche i tre famosi interventi cantabili di Violetta alla festa del second’atto erano mantenuti ad un andatura tesa, senza concessioni a slargamenti, che meno davano l’idea di pause liriche e più s’integravano nell’atmosfera generale del quadro. Ma – ed è anche qui che Rabaglia si è distinto dai direttori dimostrativi o autoreferenziali – l’ampiezza dell’arcata di frase rimaneva intatta.
Come contrasto, i tempi del quadro campestre e del finale, erano prevalentemente posati, a suggerir la distensione della vita campestre (neppure l’intrusione di Germont padre la scuote più di tanto, ché Violetta è troppo disincantata per non ricomporsi sùbito) o la stanchezza di una vita senza più energie. Così, anche la cabaletta di Alfredo, che Rabaglia, sulla scorta del libretto, non vuole eroica, è stata condotta a tempo trattenuto, carico però d’energia quasi rabbiosa (bravissimo nella circostanza il tenore Jenish Ysmanov – alternatosi con Fabrizio Paesano, già lanciato, dicono, in una bella carriera, e con Otar Jorjikia – a trovare l’accento giusto, secondo le intenzioni del direttore), propria di un personaggio che il regista vede in maniera negativa. Alfredo, secondo Brockhaus, è un giovinastro indolente (il suo stravaccarsi svagato sull’erba in principio d’atto), forse anche poco consapevole del reale amore che ha per lui Violetta, vive la non pacificata situazione in maniera beatamente irresponsabile. È in effetti squattrinato (anche quelli per giocare, la scena dopo, glieli allunga Gastone dalla sua tasca), ma non si rende conto – o almeno fa le viste di non rendersene – di essere un mantenuto (se ne accorge, invece, eccome l’Annina, abituata alle generose mance degli antichi amanti della padrona, e che non manca di rinfacciarlo al bamboccio – “lo spendìo è grande a viver qui solinghi”, detto con una grinta da megera che o scappi o la licenzi in tronco). Anche tornato al capezzale della Traviata, Alfredo non saprà trovare neppure la dignità di alzarsi dal letto, quando questa si sarà levata nel suo delirio mortale, resterà lì seduto, capace solo di dir parole senza più senso: unica alternativa per l’imbelle, lo scatto rabbioso.
Rimane solo questo – la reazione furibonda – a distinguere Alfredo dall’ingenuo Ruggero della Rondine pucciniana. Io credo che il giovane Germont verdiano sia più consapevole delle sue azioni, dello scandalo che desta la sua relazione more uxorio con la Traviata. Alfredo non sente il bisogno – come invece il disarmato personaggio di Puccini – di chiedere alla mamma (o al babbo) il consenso alle nozze. Il vero amore va al di là delle convenzioni sociali. Solo sfugge ad Alfredo la prosaica realtà economica di quella vita, ed è quello che lo perderà: non si vive nel sogno. L’opzione di Brockhaus si giustificava comunque con la lettura generale del regista, ed era condotta con efficacia sul personaggio.
Date le precedenti considerazioni sulla centralità della parola, un’importanza fondamentale hanno assunto, dunque, le strofe ulteriori (l’opera è stata eseguita nella sua perfetta integralità), e specialmente quella della prima aria di Violetta, che chiarifica il sentimento, i sogni repressi, le speranze sopite che le dichiarazioni di Alfredo stanno gradatamente riaccendendo nella disillusa cortigiana, e che a tagliarle, come solitamente avviene, rimangono inespresse: se anche la musica si ripete, la drammaturgia procede. Una fortuna, certo, anche il disporre di una Violetta (la sera del 1° novembre Sonia Ciani, che si è alternata nel ruolo con Anna Corvino) dai rari talenti di dicitrice: non dimenticheremo facilmente certi recitativi appena pronunciati eppure chiarissimi, e soprattutto il delirio finale (“è strano… cessarono gli spasmi del dolore…”, eccetera), che per la prima volta abbiamo sentito declamato ma con perfetta intonazione della nota, così come scritto da Verdi, e che ha prodotto un effetto di crescente emozione fino al climax e alla chiusa precipitata dell’opera. Il timbro della Ciani non è, forse, in sé prelibato e gli acuti estremi sonavano spesso calanti, ma l’intensità dell’interprete è sempre rimasta perfettamente in tono, ed è quello che più conta.
Un fraseggiatore di spiccata personalità si è confermato il baritono coreano Mansoo Kim (si alternava nel ruolo di Germont padre con Michele Patti), che già tanto, per queste ragioni, era stato ammirato nei Vespri siciliani di Reggio Emilia, l’anno scorso. Come nei Vespri era stato abilissimo a pingere i cangianti umori di Monforte, le varie pose del burocrate spietato e del padre commosso, con colori vocali differenti, qui ha colpito per la duttilità nel presentare con appropriati mutamenti d’accento e di timbro le diverse manifestazioni dell’unico tratto di Germont: l’ipocrisia. Ipocrisia che si presenta con le vesti dirette, grigie e inquisitorie del buon costume con Violetta, e non sarà un caso se Germont accentua con un acuto aperto proprio la parola “vincolo”, che rende lieti ed eternizza la fugacità delle “veneri”: sa dove colpire, la carogna. Col figlio cambia strategìa, non un attacco diretto, ma una manovra avvolgente condotta con tono mellifluo e andamento cullante (il molle ondeggiare di “Di Provenza” e il caracollare ipnotico di “No, non udrai rimproveri”) volta ad avvinghiare Alfredo nelle volute di una spirale, dalla quale il figlio saprà, sulle prime, ma invano, sottrarsi con scarto repentino (“Ell’è alla festa!”). Brockhaus lo fa capire senza mezzi termini: la società chiusa, conformista, claustrofobica alla quale il vecchio Germont richiama il figliuol prodigo e rappresentata dal regista attraverso fotografie d’epoca a far da controfondale, è quella la vera pornografia, essa il vero traviamento della dignità umana. Altro che i bordelli con le loro oneste nudità (il nudo come espressione del manifesto, rappresentazione della trasparenza, nascosta – con le vergogne e la falsa virtù – dalle nere vesti soffocanti, abbrutenti, senza gioia, senza vera vita, delle persone dabbene. Anche il rimprovero pubblico della scena seguente è fasullo, mosso principalmente dal timore che – nella concitazione – Violetta potesse svelare il vero responsabile della sua fuga: difenderla è neutralizzarla.
Solo la morte della povera Traviata – unica persona vera in mezzo a tanti fantocci – riesce a dare, finalmente, una parvenza di umanità a quello zoo di mostri: perfino il “vero amico” Grenvil (pruriginoso e giovanile, con la voce del sempre elegante Andrea Patucelli) e Annina “poveretta” (Marianna Mennitti) s’erano palpeggiati senza ritegno dinanzi alla morente.
Questa, mi sembra di poter dire, la lettura ricca di suggestioni di Brockhaus e di Rabaglia, bravissimi a portare dalla loro parte i giovani interpreti: a tutti va il merito non piccolo di aver saputo evitare quell’impressione (ahimè tanto frequente) e fastidiosa di compitare un esercizio mandato a memoria ma poco digerito: abbiamo goduto di tutti personaggi credibili.
Ed ora, per questi eccellenti cantanti, viene il difficile: far tesoro di quanto imparato qui, e metterlo in pratica da soli, quando i tempi “normali” di un allestimento (questo si è provato per più d’un mese) non consentiranno più il lavoro di scavo minuzioso stato possibile in questa per molti aspetti straordinaria produzione.
Bernardo Pieri
© Roberto Ricci