DONIZETTI Roberto Devereux E. Dreisig, E. Rocha, S. d’Oustrac, N. Alaimo, L. Bernard, W. Meinert, E. Pongrac; Choeur du Grand Théâtre de Genève, Orchestre de la Suisse Romande, direttore Stefano Montanari regia Mariame Clément scene e costumi Julia Hansen luci Ulrik Gad
Ginevra, Grand Théâtre, 4 giugno 2024
Anche Ginevra – come pochi mesi or sono Amsterdam e come anche il San Carlo nel corso della prossima stagione – completa la sua “trilogia Tudor” donizettiana, impresa che sempre più spesso tenta le direzioni artistiche dei teatri lirici. È bene ricordare che non era intenzione del compositore creare una trilogia: tra Anna Bolena e Roberto Devereux intercorrono infatti sette anni e oltre venti opere; inoltre, volendo essere pignoli, occorrerebbe “porre in lista” anche Il castello di Kenilworth (titolo definitivo di Elisabetta al castello di Kenilworth). Ciò detto, questi tentativi sono comunque da accogliere e seguire con interesse, non foss’altro perché ci consentono di ascoltare con maggior frequenza una delle opere meno note di Donizetti, eppure tra le sue più interessanti, sia a livello musicale che drammaturgico: Roberto Devereux, per l’appunto.
Come già ad Amsterdam, dove officiavano Enrique Mazzola e Jetske Mijnssen, e a Napoli (stessa produzione della DNO ma con Riccardo Frizza sul podio), anche a Ginevra direttore d’orchestra (Stefano Montanari) e regista (Mariame Clément) sono comuni alle tre opere. Il quid pluris proposto dal Grand Théâtre è rappresentato dall’aver schierato gli stessi interpreti per i ruoli principali dei tre titoli: Elsa Dreisig (Anna Bolena nell’opera eponima, poi Elisabetta nella Stuarda e nel Devereux); Stéphanie d’Oustrac (rispettivamente Seymour, Maria e Sara) e Edgardo Rocha (Percy, Leicester e Roberto). In aggiunta, dopo quattro recite del Devereux, l’intera trilogia sarà proposta in due serie di rappresentazioni ravvicinate tra il 18 e il 30 giugno, consentendo così di meglio apprezzare i collegamenti immaginati dal creative team.
Avendo assistito al solo Devereux, non possiamo naturalmente coglierli, anche se qualche indizio traspare comunque. La linea di continuità tra Anna Bolena ed Elisabetta risiede naturalmente nell’essere quest’ultima figlia della prima. Ed infatti ritroviamo in alcuni istanti un’Elisabetta-bambina, che, come apprendiamo dal programma di sala, faceva già capolino nel corso della Bolena: lì come muta testimone dei tragici eventi che avrebbero portato all’esecuzione capitale della madre; qui come sorta di nostalgica evocazione di una fanciullezza ormai lontana, che popola i pensieri di una sovrana anziana, schiacciata dal peso delle responsabilità regali, che di fatto le hanno impedito di coltivare una propria vita sentimentale e la obbligano tuttora a celare le proprie emozioni (“ah! non sia chi dica in terra: la regina d’Inghilterra ho veduto lagrimar”). Un’altra episodica “apparizione” è quella di un’anziana signora, veste e capelli candidi, che rappresenta verosimilmente il fantasma della Stuarda – e, simbolicamente, il peso sulla coscienza di Elisabetta, ancora ben presente. Nel quadro di una scenografia che alterna interni sobri a desolati esterni autunno-invernali, la sola Elisabetta indossa un costume d’epoca: il classicissimo outfit con il quale si è soliti identificare la “regina vergine”, completo di guardinfante, parrucca rossa e viso ricoperto da uno spesso strato di biacca, che annulla i tratti somatici dell’interprete, rendendola irriconoscibile. Tutti gli altri vestono abiti moderni alquanto neutri, esprimendo così icasticamente l’isolamento e la solitudine di Elisabetta. La direzione degli attori, al netto di occasionali (ed inutili) stravaganze, restituisce tutto sommato efficacemente l’attualità della drammaturgia donizettiana, che è il riflesso di uno spirito idealistico e controcorrente.
Forte della sua lunga esperienza nella pratica delle esecuzioni storicamente informate, e assai ben assecondato dall’Orchestre de la Suisse Romande, Stefano Montanari propone una direzione contrastata, abitata da un notevole slancio teatrale, nella quale tempi e intensità sono sagomati sullo svolgimento dell’azione e sul momento psicologico dei personaggi. Interessante anche l’approccio alle variazioni: non si tratta solo di interpolare fioriture nelle ripetizioni delle cabalette, ma anche di lavorare sulla dinamica e sul fraseggio: esemplare al riguardo la ripresa in pianissimo di “Qui ribelle ognun ti chiama” di Nottingham. Nell’impegnativo ruolo di Elisabetta, Elsa Dreisig esibisce una vocalità sfumata e tecnicamente solida, arricchita da una coloratura mordente e da acuti raggianti (e questa non è una sorpresa); ma anche una recitazione matura e intensa, in forza della quale incarna alla perfezione i tormenti della senescente regina, le cui pene esistenziali vengono incisivamente rimarcate da una camminata zoppicante e incerta. Stéphanie d’Oustrac appare vocalmente estranea alle esigenze stilistiche di questo repertorio: pur tuttavia, la sua presenza scenica carismatica le consente di compensare le perplessità sollevate da un canto troppo “espressionista”: con lei il personaggio di Sara acquista un rilievo insolito dal punto di vista teatrale. Edgardo Rocha è alquanto pallido a livello timbrico e poco convincente sul piano interpretativo; peccato perché, a differenza di Percy e di Leicester, Roberto è un ruolo più articolato e stimolante dal punto di vista psicologico. In virtù dei suoi mezzi, morbidi e possenti al tempo stesso, Nicola Alaimo incarna un notevole Nottingham. Tra i comprimari si segnala il valente Lord Cecil di Luca Bernard. Eccellente il coro, qui chiamato a dare vita ad alcune tra le migliori pagine scritte da Donizetti.
Paolo di Felice