WEBER Invitation à la danse CHOPIN Tre valzer op. 64; Tre studi op. 25: nr. 1, 6, 12; Ballata in sol minore op. 23 BEETHOVEN Grande Sonata in do minore op 13 (Pathétique) LISZT Reminiscenze dal Rigoletto di Verdi pianoforte Francesco Libetta
BEETHOVEN Ouverture Coriolano; Sinfonia n. 1 MOZART Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 K 488 pianoforte Dejan Lazić Orchestra Verdi, direttore Krzysztof Urbański
Milano, Sala Verdi del Conservatorio e Auditorium, 12 e 20 maggio 2021
La ripresa dei concerti con il pubblico in sala in questo maggio 2021 costituiva un’enigma: da un lato, c’è chi pensava che i fruitori avrebbero reagito con diffidenza a una riapertura quasi inaspettata; dall’altro, chi era convinto che avremmo assistito a un’esplosione di entusiasmo contagioso, con un pubblico pronto ad affollare – ancor più che in passato – le sale. Ha prevalso, fortunatamente, la seconda “scuola di pensiero”. Sebbene sia ancora presto per stabilire se l’entusiasmo del ritorno è un fuoco di paglia o una tendenza destinata a consolidarsi, non può che far piacere osservare la sete di opere e concerti live dopo la traversata del deserto di quest’ultimo anno.
È però certo che, ora che l’offerta web è diventata ancora più ricca di quanto già lo fosse prima della pandemia, chi si reca a un concerto desidera un’esperienza che vada ben oltre una corretta esecuzione o una performance di “alto livello”. Ogni artista che si presenta su un palcoscenico, oggi più che qualche decennio fa, non può limitarsi a dare una dimostrazione di professionalità burocratica per addetti ai lavori. E ciò non riguarda soltanto il momento esecutivo, ma anche il muoversi del musicista nella società: i grandi nomi che hanno fatto la storia di fine Novecento, i Pollini o i Sokolov, possono ancora permettersi di sparire dalla vita pubblica una volta fuori dal palcoscenico; ma tutti coloro che vogliono essere attori della contemporaneità difficilmente potranno oggi assumere un atteggiamento simile.
Alla schiera dei musicisti capaci di trasformarsi e di vivere il proprio tempo con costante curiosità intellettuale ed esistenziale fa senz’altro parte Francesco Libetta, a cui la Società dei Concerti di Milano ha affidato il concerto d’apertura della serie “Daccapo II”. Libetta ha già ampiamente dimostrato in passato quali siano le mirabilia di cui è capace dal punto di vista virtuosistico. Oggi, il suo pianismo altamente spettacolare non ha di certo perso quei “numeri”, ma li ha anzi raffinati e resi più sublimi che in passato. Ciò che è cambiato rispetto ad alcuni decenni fa, è che – in un panorama in cui i supervirtuosi spuntano come funghi, soprattutto dall’Oriente – Libetta non si sente più in dovere di cercare di essere il “migliore”, avvicinandosi così sempre più all’essere pienamente “sé stesso”. Per chi, come il sottoscritto, lo ha seguito in questi ultimi decenni, è chiaro che questo processo fa aumentare il grado di autenticità di questo artista. Mentre alcuni anni fa il Beethoven di Libetta sembrava voler dimostrare quasi con un certo distacco alcune tesi stilistiche, seppur con timbrica e fraseggio di prima classe, oggi ci appare più vissuto. L’incisione, durante la pandemia, dell’integrale sonatistica beethoveniana (ancora non pubblicata) ha portato il pianista salentino non soltanto a interrogarsi nuovamente su questioni di prassi, ma anche a un’immedesimazione profonda, che è emersa nella Sonata “Pathétique” op. 13. Se a qualcuno i grandi contrasti dinamici e le sonorità ciclotimiche, fra violenti soprassalti e tenerezze inaudite, possono essere sembrati “lisztiani”, è perché non ci si ricorda abbastanza spesso quali terremoti e sconquassi il Beethoven improvvisatore (ma anche esecutore della propria musica) poteva suscitare nel suo pubblico: è proprio questa imprevedibilità e questa alternanza di sublime (nel senso kantiano del termine) e affettuosa familiarità (heimlich) a essere emersa.
Prima di Beethoven, Weber (Invitation à la danse) e Chopin avevano confermato la capacità del pianista di ricreare nel grande auditorium un’atmosfera da salon ottocentesco: di particolare fascino sono apparsi i tre Valzer op. 64, con una timbrica fatata e mutevolissima in particolare nel secondo, e lo Studio op. 25 n. 6, in cui le doppie terze venivano sussurrate a rapidità impressionante, creando un baluginio sonoro pre-impressionista. Nelle pagine usualmente considerate più drammatiche, come la Ballata n. 1, Libetta continuava a far prevalere il languore già espresso nei valzer, lasciando solo a pochi momenti l’accensione dionisiaca – come a volerla dosare e valorizzare ancor più.
Conclusione e culmine del recital è stata la parafrasi lisztiana “Reminiscenze dal Rigoletto di Verdi”, cavallo di battaglia del pianista, che ha stupefatto il pubblico con la morbida persuasività del suo cantabile non meno che con le mirabolanti ottave ribattute. Incantevole è stato anche il bis, una pensosa e quasi spaesata, attonita versione di “O mia bella madunina”, composta dallo stesso Libetta, omaggio a una Milano metafisica, forse proprio quella dolente della pandemia.
In terra meneghina, anche La Verdi (Orchestra Sinfonica G. Verdi di Milano) ha scelto di aprire con artisti capaci di lasciare un segno personale sul pubblico. Il direttore polacco Krzysztof Urbánski e il pianista croato naturalizzato austriaco Dejan Lazić appartengono a quel genere di artisti le cui estrosità possono risultare bizzarre e incomprensibili ad alcuni, incantare altri ed evitare in ogni caso l’indifferenza. Particolarmente significativo è stato dunque ascoltarli in un repertorio di capolavori deputati come l’Ouverture del Coriolano e la Prima Sinfonia di Beethoven, fra i quali vi era incastonato uno dei più celebri Concerti di Mozart, il K 488: lavori che, nel bene e nel male, ci è sembrato quasi di ascoltare per la prima volta, tanto era il grado di originalità e di personalità degli interpreti. Nel Coriolano, in particolare, Urbánski ha annullato quasi completamente la dimensione titanico-eroica, mettendo in risalto invece la lacerazione interiore dell’uomo: dolcezza estrema da un lato (l’espressione di un femminino che è anche quello della madre e della moglie che affiancano Coriolano nel momento in cui costui compie il gesto estremo), forza dell’odio dall’altro (le sferzate espresse con violenti gesti verticali, specchio del risentimento dell’eroe). Un Coriolano nuovo, dunque, che ci fa percepire l’eroe vicinissimo alle nevrosi di ognuno di noi.
Per quanto riguarda Mozart, Dejan Lazić (pianista che già su disco avevamo apprezzato per le finezze sonora e la freschezza dell’ispirazione) ha impostato con Urbánski una lettura agile e dichiaratamente anti-sentimentale (perfino nel secondo movimento, che tradizionalmente viene romanticizzato), ma piena di quel culto della sensazione fisica che è tipico del Settecento. Sensuale, al punto da arrivare talvolta ai limiti di un manierismo gestuale un po’ rococò, questa impostazione è stata accolta bene dall’orchestra nei primi due movimenti, mentre nel terzo essa sembrava un po’ recalcitrante nel seguire il tempo speditissimo e leggiadro scelto dal pianista. Per un tale solista e in una tale acustica, sarebbe stato forse necessario un organico un po’ alleggerito: l’orchestra, seppur in ottima forma, risultava a tratti troppo invasiva rispetto a Lazić, cesellatore che avrebbe trovato la dimensione perfetta addirittura in una versione a parti reali. L’estro del solista è emerso anche nella cadenza del primo movimento, da lui stesso composta, in uno stile polifonico e al contempo sfavillante volutamente lontano dall’originale.
La Sinfonia n. 1 ha infine confermato la visione beethoveniana di Urbánski, quasi alla ricerca delle fragilità umane del genio. La sottolineatura degli aspetti femminili e di quelli ironici, quasi talora in maniera provocatoria, ha ribaltato l’immagine compatta e virile che ancora l’immaginario collettivo associa a Beethoven: brillante idea, che però avremmo voluto vedere talvolta applicata in maniera meno effettistica.
Luca Ciammarughi