DONIZETTI Anna Bolena S. Alberghini, C. Remigio, A. Vendittelli, L. De Donato, R. Gatin, P. Gardina, M. Nardis; Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia, I Classicisti, direttore Diego Fasolis regia Carmelo Rifici scene Guido Buganza, costumi Margherita Baldoni
Piacenza, Teatro Municipale, 16 febbraio 2024
Di questa produzione di Anna Bolena, nata a settembre sulle rive del Ceresio e in tour questo mese nei teatri emiliani, hanno già scritto Nicola Cattò sulle colonne di MUSICA 350 (in riferimento alle recite luganesi) e Bernardo Pieri sul nostro sito (in relazione alle recite reggiane). Si sa: tante teste, tante idee. Sicché dalle penne dei colleghi sono uscite opinioni su più punti discordanti. Non è mio compito ergermi a giudice tra tante menti, per cui, scrivendo di quanto ascoltato e visto a Piacenza, mi limiterò a fornire un terzo punto di vista, personale, indipendente e spero sintetico, che potrà accostarsi ora al parere dell’uno ora a quello dell’altro, ora discostarsi da entrambi.
Lo spettacolo, firmato da Carmelo Rifici, si propone di dare una raffigurazione tradizionale del dramma (pur senza rifarsi a criteri di fedeltà storica né didascalica). Se è buono il lavoro sui personaggi, realizzato con una recitazione scabra, a tratti statuaria e affine all’estetica del tableau vivant (di particolare impatto le chiuse di alcune scene ‒ non escluso il colpo d’occhio finale sulla decapitazione ‒, valorizzate peraltro da begli accostamenti cromatici), convince meno l’inserzione di presenze estranee alla drammaturgia come i decoratori e la via crucis. Ma il vero elemento di pregio di questa regia è la capacità di definire un’atmosfera: quella di un ambiente spoglio e taciturno in cui i personaggi sono essenzialmente soli nel confrontarsi con sé stessi e con i propri fantasmi interiori. Particolarmente saggia, a questo proposito, è risultata la scelta di far entrare in scena il coro solo quando strettamente necessario, evitando di fargli riempire inutilmente il palcoscenico. Queste atmosfere hanno trovato una perfetta corrispondenza nella concertazione di Diego Fasolis, particolarmente rigorosa fin dalla sinfonia (i cui frammenti motivici sono stati messi in risalto con asciuttezza e una certa virulenza), attenta ad agevolare i cantanti ma senza permettere loro sbavature o indugi sentimentalistici. La lettura del direttore si è fondata sul rispetto della partitura, data in forma quasi integrale, e sul suono dell’orchestra “I Classicisti” (cioè “I Barocchisti” adattati alle esigenze di una partitura del 1830), che, con strumenti originali e diapason filologico, ha ricreato le atmosfere sonore dei teatri italiani del primo Ottocento.
Passando al versante vocale, raramente capita di ascoltare, in questo repertorio e in un titolo tanto impegnativo, un cast così ben assortito e capace nella sua interezza, al netto di piccole imperfezioni, di far vivere la drammaturgia donizettiana con tanta efficacia senza tradirne la natura. Per ciò che concerne i protagonisti, si potrebbe riassumere: due voci giovani e due voci mature, con ciò che ne consegue in termini di elementi di forza e di criticità. Volendo spendere qualche riga in più, del tutto meritata, Simone Alberghini, quale Enrico VIII, si è messo in luce nel duetto con Giovanna, e l’ha soggiogato, specie nella perspicuità del fraseggio, ad indicare l’ascendente che la sua figura esercita sulla giovane damigella. Il seguito, al confronto, è parso un pochino sottotono: se restava la classe nel fraseggio, mancava il peso vocale necessario a conferire una presenza imponente al sovrano autoritario in alcune scene-chiave. Sul fronte giovanile, il tenore Ruzil Gatin sfoggia una voce assai promettente, fresca, luminosa e ben sostenuta. Nella cavatina d’esordio il suono è da ammorbidire e il fraseggio da approfondire, e talvolta gli gioverebbe qualche piccola libertà nei tempi che gli consenta di rimarcare meglio talune sfumature affettive. Nel II atto la sua interpretazione è decisamente cresciuta, nel terzetto e soprattutto nell’aria «Vivi tu, te ne scongiuro», nella quale l’arditezza degli acuti svettanti si è coniugata a un colore velato di nostalgia, e un fraseggio curato si è avvalso dell’espressività di suoni più morbidi e della mezza voce. Le due rivali sono state affidate a due voci sopranili, conformemente alla distribuzione originaria. Arianna Vendittelli (Giovanna), dopo una sortita non del tutto convincente, ha rivelato volume ampio, varietà di colori e accenti che le hanno permesso di scolpire con grande efficacia l’aria del II atto, e in particolare la cabaletta. Carmela Remigio (Anna) sfoggia un carisma interpretativo (fondato sul controllo del fraseggio, sulla tornitura della parola e sull’uso del gesto scenico) che sopravanza i colleghi, come si rende palese nei duetti, e si fa perdonare uno strumento qua e là non perfettamente smagliante e alcune dimenticanze del testo intonato: dall’ingresso quasi parlato, cui segue l’apertura d’intenso lirismo della cavatina, alla forza del confronto con Giovanna, al capolavoro dell’aria finale, la regina inglese si staglia con i contorni di una vera figura tragica nel senso più elevato del termine.
Gli elogi si devono estendere allo Smeton del mezzosoprano Paola Gardina, protagonista di un’aria molto espressiva, tra sentimento e leggerezza, vivificata da vibrazioni gravi che identificano la natura ibrida della voce adolescenziale del paggio; e anche alle seconde parti di prima scelta, Marcello Nardis (Hervey) e soprattutto Luigi De Donato (Rochefort). Il Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia è parso in ottima forma, in specie nel II atto e segnatamente nel numero che apre la scena finale, messo in risalto nel suo perfetto equilibrio di solennità e mestizia. E gli equilibri della partitura sono stati rispettati anche grazie alla scelta di effettuare pochissimi tagli. Fasolis sul programma di sala ha scritto: «Con una fruizione moderna in cui il pubblico resta seduto in sala […] qualche taglio si impone, ma ho deciso di essere molto parco e il più rispettoso possibile in questa operazione». Molto parco in effetti è stato, e a questo punto una domanda è d’obbligo: fatto 30, non si poteva fare 31 e osare l’integralità assoluta? Numeri come l’aria di Giovanna, che raramente si ascolta così completa nella sua dimensione di complessa scena drammatica, dimostrano infatti l’importanza di non praticare sforbiciature al fine di raggiungere una vera efficacia drammaturgica. Quanto a quegli spettatori che all’uscita commentavano «la prossima volta devo suggerire al regista di non ripetere tante parole», hanno qualche problema di fondo con l’estetica del belcanto, che non si risolve certo eliminando i da capo.
Marco Leo