Luca Segalla riflette sulle Variazioni Goldberg di Bach suonate da Lang Lang nella Thomaskirche di Lipsia e trasmesse in streaming su DG Stage (clicca qui per informazioni) lo scorso 19 novembre.
Quando sulle scene internazionali è esploso il fenomeno Lang Lang – sono passati vent’anni – la mia impressione era di essere davanti a un extraterrestre del pianoforte, in tutti i sensi. La facilità e la sensibilità digitale del pianista cinese apparivano assolutamente fuori dall’ordinario, i cui unici termini di paragone possono essere due pianisti egualmente extraterrestri come Glenn Gould ed Evgeny Kissin. Lang Lang, però, era un extraterrestre anche perché non sembrava minimamente toccato dalle preoccupazioni e dai dolori del mondo. Nella sua musica c’era la bellezza, ma mancava la vita. Immaginavo che la vita sarebbe arrivata con l’esperienza, invece passavano gli anni e Lang Lang restava sempre lo stesso ragazzino irriverente. Seduceva e abbagliava con il suo pianismo di millimetrica precisione e una tavolozza dinamica che sembrava tendere all’infinitamente piccolo nella ricerca ossessiva dei particolari, ma continuava a restare un pianista restio ai veri abbandoni, un pianista che non si faceva scrupoli nel massacrare la «Marcia turca» di Mozart suonandola ad una velocità folle (al Festival di Lucerna, nell’estate del 2014) e che si esaltava di fronte a platee di migliaia di persone, esibendosi perfino nei palazzetti dello sport come se fosse un divo del pop. Suonati da lui Chopin, Ciaikovski e Mozart avevano sempre un sapore un po’ alterato, anche se erano tremendamente elettrici e tremendamente seduttivi.
Poi, settimana scorsa, abbiamo visto sul sito della Deutsche Grammophon lo streaming del concerto tenuto in marzo alla Thomaskirche di Lipsia con le Variazioni Goldberg di Bach e siamo rimasti senza parole. Cosa ci faceva – veniva da chiedersi – il ragazzino irriverente nel tempio della musica, nel luogo dove Johann Sebastian Bach ha lavorato per oltre venticinque anni e dove è sepolto?
Dopo un lungo periodo di quasi silenzio, però, qualcosa a Lang Lang è accaduto, perché queste sue Goldberg, di cui è uscita anche una doppia versione discografica sia live sia in studio, sono memorabili. Il paradosso è che Lang Lang non è maturato, non è diventato un pianista ombroso e riservato come il Pletnev di questi ultimi anni. È rimasto un interprete tutto teso a comunicare, a fare partecipe il pubblico delle emozioni che sta vivendo disinteressandosi allo stile ed in parte anche alla coerenza dell’interpretazione. Eppure, in questo suo continuo accendere dei fasci luminosi su ogni singola variazione delle Goldberg finisce per scandagliarne la profondità e rivelarcela: come ha osservato acutamente Piero Rattalino proprio sul numero di novembre di MUSICA, “Lang Lang trascrive la drammaturgia delle Goldberg per il pubblico degli attuali ascoltatori puri”.
Lang Lang non è infatti diventato András Schiff. La sua arte nulla ha che vedere con la maniacale ricerca degli equilibri e la sublime trasfigurazione dei sentimenti del pianista ungherese. Al contrario la sua arte di interprete è tutta nel segno della retorica, di una grande abilità oratoria messa al servizio della musica, in grado di rendere evidente al pubblico, sia a quello presente nella Thomaskirche sia a quello planetario della rete, la profondità di un capolavoro dalla forza inestinguibile. Ecco spiegate le ragioni dell’estremizzazione dei tempi(molto lenti o molto veloci) e dell’esasperazione della paletta dinamica, perché Lang Lang, come a onore del vero oggi fanno quasi tutti i pianisti, suona le Goldberg al pianoforte senza cercare di camuffare da clavicembalo il suo strumento. È lo stesso approccio retorico di Daniel Barenboim, solo che con Lang Lang quest’arte oratoria è più efficace perché sempre sostenuta da una tecnica infallibile, a cui si affianca una fotografica definizione dei dettagli che oggi pochissimi pianisti sono in grado di ottenere.
Resta aperta la questione dello streaming, un’esperienza di ascolto inevitabilmente molto diversa rispetto al rito del concerto dal vivo, ma anche rispetto al rito dell’ascolto di un disco. Il rito serve a predisporre all’ascolto, perché permette di liberarci da tutte le scorie della quotidianità, mentre con lo streaming succede proprio l’opposto, perché la musica irrompe nella nostra quotidianità e ne viene disturbata: con questo streaming non siamo veramente entrati nella Thomaskirche, piuttosto qualcosa di quella serata di marzo alla Thomaskirche è arrivato fino a noi.
Paragonerei lo streaming – immagino che molti la pensano diversamente – a una scialuppa di salvataggio che permette alla musica di superare i marosi della pandemia. Il fatto è che una scialuppa prima o poi deve raggiungere un approdo, altrimenti è destinata a perdersi.
Luca Segalla