PERGOLESI Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di San Guglielmo duca d’Aquitania R. Milanesi, S. Soloviy, C. A. Daliotti, A. Vendittelli, M. Huseynov; Les Talens Lyriques, direttore Christophe Rousset regia Francesco Nappa scene Benito Leonori costumi Giusi Giustino
RESPIGHI Re Enzo D. Beucher, R. Fernandes, M. Krysztoforska, A. Ioseliani, T. Shimotsuka, D. Adriani, G. Tsintsadze, T. Giorgadze, M. Rinaldi; Ensemble Salvadei, Cori Polifonici, direttore Alessandro Benigni regia Matteo Mazzoni scene Elisabetta Salvatori costumi Patricia Toffolutti
Pergolesi Spontini Festival 2016, 9 / 15 settembre 2016
Dopo la prestigiosa integrale delle opere di Giovan Battista Pergolesi per i 300 anni dalla nascita del compositore jesino – testimoniate anche da una bella serie di DVD Arthaus – il Festival Pergolesi Spontini era sembrato spegnersi un poco con alcune edizioni in cui lo spettro della crisi si era fatto sentire in una serie di programmazioni in cui, pur non mancando eventi interessanti, si era avvertita la mancanza di quelle ambizioni necessarie a un festival dedicato a due compositori ancora fin troppo bistrattati quali Pergolesi e Spontini. Per fortuna l’edizione 2016 si è caratterizzata per una positiva inversione di tendenza con la versione in forma scenica del dramma sacro pergolesiano (dal titolo wertmülleriano) Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di San Guglielmo duca d’Aquitania e del raro Re Enzo di Respighi in un’edizione dedicata completamente alla dinastia di Federico II, dal titolo Vento di Soave – Papi, Imperatori, Armi e Amori sotto l’Aquila sveva, oltre alla consueta serie di concerti di contorno. Nel caso del dramma sacro pergolesiano l’elemento di maggior spicco è stato indubbiamente la presenza di Christophe Rousset e dei “suoi” Talens Lyriques, autori di una prova eccezionale per compattezza, precisione e senso dello stile: se un appunto si può muovere è quello di non aver valorizzato a sufficienza la compresenza di stile alto e comico del dramma sacro, sbilanciando l’equilibrio dell’opera verso lo stile religioso, con il risultato che il povero interprete del fanfarone Cuosemo – Clemente Antonio Daliotti – si è trovato a dover fare un po’ tutto da solo. Daliotti è stato comunque bravo, al pari degli altri interpreti della serata: la squillante Arianna Venditelli, disinvolta e virtuosa, l’intensa Raffaella Milanesi, un San Guglielmo attendibile nonostante un incerto inizio di serata, e Maharram Huseynov, un po’ acerbo per poter incarnare il ruolo del Demonio ma cantante comunque apprezzabile. Migliore di tutti la bravissima Sofia Soloviy nel doppio ruolo di San Bernardo e Padre Arsenio: sua è una delle arie più belle dell’opera “Come non pensi ch’un foco eterno”, dalla Soloviy resa con grande intensità e pathos. Essenziale, anche se statica (ma il lavoro nasce come oratorio e non come opera lirica) la regia di Francesco Nappa, che con largo uso di proiezioni ha assecondato e cercato di valorizzare per quanto possibile la debole drammaturgia del lavoro. Caldi applausi al termine. L’altro titolo proposto dal festival, stavolta non nella cornice del Teatro Pergolesi ma in quella sperimentale del Teatro Moriconi, è stato la frizzante operetta di Respighi Re Enzo, di rarissima esecuzione, in cui la vicenda dell’esilio bolognese di Enzo di Hohenstaufen, catturato dopo la battaglia di Fossalta, viene riletta in un clima brillante in cui la leggendaria bellezza di Enzo – che si dice adorato dalle donne bolognesi – è al centro di una commedia degli equivoci dal ritmo incalzante e divertente. Tuttavia per rendere al meglio il clima dell’operetta sono necessari artisti veramente esperti, in grado di assecondare non solo il trascinante melodismo di frasi accattivanti e fatte per entrare nel cuore (e nella mente) del pubblico ma anche un fraseggio brillante e scanzonato. È quello che è un po’ mancato al protagonista jesino, il tenore David Beucher, che canta bene, è abbastanza credibile in scena ma necessiterebbe di un carisma maggiore per rendere credibili le motivazioni che spingano così tante donne a volerglisi concedere. Brava la Lauretta di Rafaela Fernandes (comunque titolare di una parte meno impegnativa rispetto al ruolo del titolo), sufficientemente spiritosa e disinvolta, oltre che brava vocalmente. Nel complesso affiatati e coinvolti anche gli altri membri del cast, Magdalena Krysztoforska, destinataria di un melologo che è tra le pagine più interessanti dell’opera, Akaki Ioseliani, il simpatico Takahiro Shimotsuka, Daniele Adriani, Giorgi Tsintsadze, Tsisana Giorgadze e Martina Rinaldi. In buca si è esibita l’Ensemble Salvadei guidata con brillantezza da Alessandro Benigni, anche se con qualche pesantezza di troppo, mentre la regia di Matteo Mazzoni ha reso a meraviglia il clima leggero e fiabesco di questo Medioevo “da operetta” (e per una volta non è un insulto) con pochi elementi e un bel ritmo complessivo. Divertenti, ma non sempre di ottimo gusto, gli attori della compagnia I guitti senzarteneparte, destinatari di tutti i dialoghi parlati dell’esile vicenda. Applausi convinti e intensi al termine per tutti i protagonisti.
DONIZETTI Lucia di Lammermoor Z. Marková, G. Caoduro, F. Demuro, U. Guagliardo, S. Moon, M. Pierattelli, A. Pirogova; Orchestra Sinfonica “G. Rossini”, Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, direttore Giuseppe Grazioli regia Federico Bertolani scene e costumi Lucio Diana
PUCCINI Tosca C. Costea, A. Palombi, A. Gazale, A. Spina, D. Bartolucci, M. Voleri, O. Kamata, B. Venanzi, A. Galatello; Orchestra Sinfonica “G. Rossini”, Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, direttore Guillaume Tournaire regia Pete Brooks scene e costumi Laura Hopkins
Ancona Jesi Opera 2016, Teatro delle Muse di Ancona, 25 settembre / 16 ottobre 2016
La nuova stagione lirica condivisa tra Ancona e Jesi, con sei titoli d’opera previsti da settembre a dicembre (sette se si pensa che uno degli spettacoli sarà il dittico composto da Cavalleria Rusticana e Pagliacci) nelle città di Ancona e Jesi comincia non benissimo, dato che due dei titoli jesini – La traviata e La scuola dei gelosi – sono slittati ad anno nuovo per ragioni economiche, mentre nessuna variazione si è registrata per i due spettacoli anconetani, anche se il pubblico deve ancora abituarsi alla nuova programmazione autunnale di una stagione che si era sedimentata nella calendarizzazione invernale fino a due anni fa. Comunque sia, pur con i limiti economici di un budget limitato, i due titoli anconetani si sono caratterizzati per una resa notevole, soprattutto nel caso dell’inaugurazione donizettiana, visto che Lucia è stata proposta in versione pressoché integrale (minimi i tagli, limitati a qualche coda e a un paio di da capo nell’aria di Raimondo e nella torre) come non sempre è dato ascoltare. Tuttavia lo spettacolo è sembrato viaggiare a una doppia velocità sia per quel che riguarda la direzione musicale di Giuseppe Grazioli che per la regia di Federico Bertolani: la prima parte è sembrata smorta, spenta e quasi annoiata, mentre dalla scena delle nozze la serata ha preso smalto e vitalità, con un Terzo Atto (anzi, un Secondo Atto della Seconda Parte) ben più intenso e interessante rispetto al Primo. L’allestimento, impostato a una atemporalità un po’ generica, si è comunque rivelato nel complesso un po’ statico e funereo, ma funzionale, mentre la direzione di Grazioli, dopo un Primo Atto decisamente noioso, ha ripreso quota con accompagnamenti via via più interessanti e una cura nell’equilibrio tra voci e orchestra sempre più a fuoco, soprattutto nella pazzia. In scena è stata molto applaudita la Lucia di Zuzana Marková: cauta, quasi prudente nell’entrata, trova originali accenti di rivolta e quasi di ironia nella prima parte del duetto con Enrico e brilla nella pazzia; la voce non è bella ma molto personale, la tecnica è sicura e la presenza scenica affascinante. Più debole l’Enrico di Giorgio Caoduro, interprete interessante ma colto in una serata di cattiva forma. Molto bravo Francesco Demuro: un Edgardo un po’ leggero ma dalla bella proiezione e dal fraseggio intenso, cui gioverebbe non caricare troppo l’accento nei momenti più concitati; commovente, in ogni caso, la resa della scena finale. Bene gli altri. Qualche vuoto in platea alla recita domenicale ma nel complesso teatro abbastanza pieno, con un pubblico molto caloroso. Qualche perplessità in più la ha destata la successiva Tosca, soprattutto per la regia di Pete Brooks che ha abusato di proiezioni cinematografiche nella “solita” rilettura che mira a cambiare le parti più tradizionali senza però proporre nulla di veramente innovativo: via, dunque, la fucilazione, sostituita da un killer che spara a Cavaradossi e addio anche al tradizionale salto nel vuoto di Tosca, che invece si spara in fronte. Il fatto è che queste trovate non sembravano aggiungere assolutamente nulla all’opera e, anzi, molto del pathos certosinamente costruito da Puccini sembrava scemare: brutta poi l’idea di mostrare quanto dovrebbe essere celato agli occhi dello spettatore, come la tortura di Mario o Angelotti che si prova le “vesti femminili” durante il duetto d’amore del Primo Atto. Per fortuna musicalmente le cose sono andate meglio, soprattutto grazie alla direzione di Guillaume Tournaire che, a dispetto delle poche prove, ha condotto in porto la partitura con grande teatralità ma senza indulgere in nessuno dei tradizionali effetti di cattivo gusto cari a una tradizione deteriore. Nel cast vocale si è particolarmente distinto lo Scarpia esperto di Alberto Gazale, viscido e intrigante come interprete e vocalmente a suo agio, anche se forse un po’ meno brillante di qualche tempo fa. Protagonista era la rumena Cellia Costea, in possesso di un bel timbro brunito e di un’estensione ragguardevole anche se, a essere pignoli, il do non è sempre bellissimo: sicura la tecnica, tuttavia, apprezzabili le intenzioni interpretative e disinvolta la presenza scenica… non è che se ne trovino molte, in fondo, di Tosche così. È voluminosa e grande anche la voce di Alessandro Palombi, ma l’interpretazione è risultata fin troppo caricata e per il suo Cavaradossi si poteva citare la vecchia regola degli esperti teatranti, secondo cui non sempre se si è commossi si riesce a commuovere ed è vero, anzi, il contrario. Bene i ruoli minori, in particolare Davide Bartolucci e Alessandro Spina come incisivi Sagrestano e Angelotti. Pubblico numeroso e caloroso, con qualche freddezza per il regista e applausi intensi per tutti gli artefici della parte musicale.
Gabriele Cesaretti