SCARDICCHIO Il Guercio di Puglia, opera buffa su libretto tratto dal concorso di scrittura creativa “I dialoghi del Guercio”. Paola Leoci, Manuel Amati, Carlo Sgura, Alberto Comes; Ensemble strumentale pugliese (Federico Del Gaudio, Asia Ventura, Giulia Palmisani, Matteo Erba, Luigi Tannoia, Gabriele Balsamo), direttore Danila Grassi regia Davide Gasparro
Conversano, Sagrato della Cattedrale, 5 settembre 2019
Il periodo estivo è, per gli appassionati d’opera, sempre più ricco di ghiotte occasioni: i melomani più accaniti, avendo tempo e disponibilità economiche, possono organizzare le loro vacanze come un Grand Tour che spazia dai festival più sontuosi (ad esempio Bayreuth, Salisburgo, Lucerna, Bucarest) a quelli specificamente dedicati a un compositore (ROF di Pesaro) o alla riscoperta di opere rare (Valle d’Itria). Alcuni di questi meravigliosi festival propongono anche opere scritte ex novo, ma in generale la tendenza è quella di affidarsi al passato, consolidato o riscoperto. Particolarmente coraggiosa e meritoria appare dunque l’iniziativa di mettere in scena un’opera completamente nuova coinvolgendo nel processo creativo un’équipe di giovani. È ciò che è successo ad Alberobello e Conversano con le due rappresentazioni del Guercio di Puglia, opera buffa scritta da Nicola Scardicchio su un libretto assemblato dal compositore stesso a partire dagli scritti dei vincitori del concorso di scrittura creativa “I dialoghi del Guercio”, indirizzato alle scuole, a partire dalla primaria. Il progetto, nato da un’idea della direttrice d’orchestra Danila Grassi, è audace: partendo da una figura-chiave della storia pugliese, il conte Giangirolamo di Acquaviva d’Aragona detto “il Guercio di Puglia”, l’operina (un atto unico) mira a instaurare un dialogo fra quel passato ormai leggendario e il nostro presente, in un cortocircuito che mette insieme arte, storia ed etica. Sempre più spesso la riflessione socio-politica sull’attualità – ovvero la cosiddetta “visione del mondo” – viene veicolata attraverso la regia: perché non farlo invece costruendo un’opera da capo a fondo? Quest’idea, che in passato sarebbe stata la regola, è oggi purtroppo l’eccezione, perché richiede ovviamente molto più tempo, pazienza, sacrifici. Eppure, avendo assistito alla rappresentazione e al suo successo, siamo convinti che la strada sia quella giusta: perché la collaborazione fra il compositore e gli altri “attori” del processo creativo avviene in maniera organica, rendendo quindi più preciso e coerente il messaggio che si intende trasmettere. Ma c’è un altro elemento importante: se non si commissionano nuove opere in maniera costante o addirittura massiccia, come può un compositore divenire un vero operista? In questo senso, ricordiamo che né Mozart né Rossini, né Verdi né Puccini, né Massenet né Wagner scrissero i loro capolavori d’emblée: prima passarono per una lunga pratica (pensiamo a Bizet, che, prima di Carmen, passò per Le Docteur Miracle, Don Procopio, Les Pêcheurs de perles, La Jolie Fille de Perth, Djamileh). Cosa intendiamo dire con ciò? Che un progetto come questo, made in Puglia, dovrebbe essere da esempio per tutte le regioni d’Italia: non basta una nuova opera ogni tanto per tenere viva una tradizione operistica e creare capolavori. Ce ne vorrebbero decine, centinaia. E non necessariamente, beninteso, mega-produzioni presentate in pompa magna come l’evento del secolo.
Il merito di questa produzione sta innanzitutto nel fatto di aver scelto un tema in grado di assorbire completamente gli artisti e quindi il pubblico: sorta di Dracula (o meglio, Barbablù) pugliese, il Guercio è personaggio perfetto da mettere in scena per la sua morbosa ambiguità. Politico, stratega, militare, mecenate, ebbe aspetti eroici e altri efferati: sono i secondi che hanno ovviamente più alimentato dicerie e leggende, fra cui quella che egli – duca di Nardò – tappezzasse le poltrone con la pelle scuoiata dei ribelli neretini. Ma è sul lato erotico che si concentra l’operina: il Guercio aveva l’abitudine di avvalersi dello ius primae noctis, portandosi a letto le popolane ancora illibate nella loro prima notte di matrimonio. Con abile mossa, Scardicchio ha declinato tale orrore in chiave buffa, al fine di non appesantire un’operina che vuole essere sofisticata ma anche popolare: il Guercio viene gabbato dal suo entourage, sobillato anche dalla Contessa furiosa per i continui tradimenti e le menzogne del marito, e al posto della novella sposa Margherita è il giovane Tarsia (travestito da donna) a farsi trovare pronto per le voglie del conte. Lo stupro in chiave “queer” viene rocambolescamente sventato e i delitti del Guercio, arrestato dalle guardie del re, vengono puniti.
Il principale merito di Scardicchio, che ha alle spalle già alcune opere (anche per bambini, come l’anno scorso, al Teatro Petruzzelli, Il gatto con gli stivali), sta nel saper coinvolgere diversi tipi di pubblico grazie alla sua sofisticata semplicità: il linguaggio, fondamentalmente tonale, ha un potere comunicativo immediato, ma le diverse sfumature presenti nel libretto, dal tragico al comico, vengono restituite in modo tutt’altro che banale attraverso un sapiente e spesso audace utilizzo delle modulazioni armoniche (Nino Rota – che non a caso di Scardicchio è stato maestro – docet). A ciò si aggiunga un fascino melodico che, ancora una volta, non si basa sull’adesione a triti luoghi comuni: le linee vocali non sono così facili da cantare come sembrano, forse proprio per la mutevolezza dell’armonia. Il cast, composto da voci under 35, già però affermatesi in importanti festival e stagioni liriche, ha affrontato con evidente entusiasmo la sfida: non si può dire che tutto fosse perfettamente a punto, ma il coinvolgimento attoriale e musicale ha fatto dimenticare alcune imprecisioni. Nella parte del Guercio, Alberto Comes ha dimostrato un’autorevolezza e un “corpo” della voce del tutto all’altezza della situazione (deve solo imparare a dosare un po’ le energie: nella seconda parte è stato meno impeccabile che nella prima); Manuel Amati (Tarsia), forse il più seducente in scena, è un mattatore nato e ha una voce che, seppur migliorabile in certi registri, capta immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore per la qualità del timbro; Paola Leoci è una contessa perentoria, dall’emissione chiara e sferzante; Carlo Sgura un Trifone persuasivo e duttile nell’interazione con gli altri personaggi. L’interazione attoriale ha regalato al pubblico momenti di particolare freschezza. Sul podio, Danila Grassi, anima del progetto, tiene con savoir faire e delicatezza i fili del tutto: compito non facile in una rappresentazione all’aperto (con il suggestivo sagrato della cattedrale di Conversano a far da palcoscenico), in cui l’ensemble strumentale risultava per ragioni acustiche un po’ svantaggiato rispetto alle voci. La scelta di un organico cameristico, a parti reali, si è comunque rivelata giusta per un’opera che esplora la fenomenologia erotica e i rapporti psicologici fra i vari personaggi in maniera quasi settecentesca, à la Marivaux, preferendo le sottolineature argute e i sottili clin d’œuil agli effetti plateali. L’idea di dialogo con una sorta di classicismo atemporale è emersa anche dalla regia di Davide Gasparro, semplice ma efficace: i personaggi, inizialmente, vengono fuori da una sorta di “bozzolo” che avvolge anche i mobili antichi (décor della rappresentazione), quasi a significare il potere che ha il teatro d’opera di far rivivere nell’oggi vicende lontane nel tempo. Successo unanime per un esperimento che – speriamo – potrà essere da esempio per altre nuove opere.
Luca Ciammarughi