PUCCINI Turandot H. He, G. Kunde, M. Sicilia, V. Taormina, C. Olivieri, F. Marsiglia, I.S. Sim; Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Valerio Galli regia Fabio Cherstich video, scene e costumi AES+F
Bologna, Teatro Comunale, 4 giugno 2019
Tanto tuonò che piovve. No, invece a Bologna, il 4 giugno c’erano un sole e un caldo che non si ricordavano dall’agosto dell’anno prima. Tutti sudati alle otto di sera nel foyer prima del via, tutti bagnati, d’entusiasmo e d’afa alla mezzanotte, quando dal Teatro Comunale si esce nella piazza dei bollori. Meteorologici e umani.
Il fatto è che arrivando qui, nel teatro del primo Wagner italiano, della Dotta Bologna e dell’antagonismo, studentesco e musicale proprio qui davanti, ho sentito l’approssimarsi di un grande avvenimento, di una serata che avrebbe riservato sorprese. In un teatro che vibra. Se questo è l’antefatto, alla Turandot di Valerio Galli, direttore d’orchestra viareggino di nascita, lucchese di studi, e livornese d’adozione, l’epilogo è stato lo stesso. Puccini è il nutrimento adolescenziale del Galli e la platea entusiasta, plaudente e battente i piedi fino a far tremare il teatro, l’hanno avvertito fin dal lento introduttivo che scandisce la proclamazione della “Legge di Turandot” attraverso la voce ben timbrata e ferma di Nicolò Ceriani.
Tutto è filato liscio. Galli rende chiarissima l’idea di Turandot sorretta da una struttura sperimentale che Puccini contrapponeva alla crisi del melodramma, avanzando un’ipotesi concreta che assicurasse coesione fra tecnica orchestrale, vocalità rinnovata, trattamento del ritmo e dell’armonia, e un’articolazione tematica e sinfonica in grado di sopportare al suo interno la successione di numeri chiusi in cui arie e insiemi non rinunciassero al passato, ma lo lasciassero protagonista di un nuovo mondo operistico da Puccini avviato già col polistilismo del Trittico.
La lettura di Valerio Galli è lucida, saldata a quel dettato pucciniano, di cui lui possiede ogni più impalpabile sfumatura. I cantanti si affidano, si lasciano guidare così come l’orchestra del Comunale, che ripropone ogni più dettagliata intenzione in modo efficace. Galli dirige con tutto il corpo, usa occhi e sguardo per chiamare archi gravi e fiati (l’ottavino, ah, che precisione), la testa per intensificare il supporto ritmico, le mani per chiamare i cori e gestire tutto il resto. Tre, i cori. Voci bianche dritte in fondo, corpo principale a sinistra in tribuna, corpo secondo sulla tribuna di destra. C’è da ragionare poco su questo allestimento. Lineare e schematico. Ai lati le due tribune riservate al Coro del Comunale. Una grande prestazione la loro, istruiti da Alberto Malazzi, con i solisti sugli scudi. Ad arredare ulteriormente, un grande schermo centrale e due piccoli laterali con un altro centrale piccolo che scende proprio sotto i sopratitoli per restare alto. La scena non ha altro, tranne i cantanti sempre al proscenio a cantare viso al pubblico. Sul fondo, un trono dove trovano posto Turandot e l’imperatore suo padre, Altoum, in versione mummia immobile.
Le immagini proiettate a misura gigante fra panorami stile Blade Runner (peccato che il magnifico film di Ridley Scott immaginasse il futuro avio-automobilistico al 2019, mentre il regista di qui si colloca nel nulla più assoluto) e sezioni di uomini e donne, volti e teste mozzate su letto di fiori (come da descrizione culinaria) completano l’idea del regista Fabio Cherstich che, per il resto, lascia fare ai cantanti ciò che vogliono. Senza imporsi… e senza partecipare.
Insomma, basta non guardare sopra l’orizzonte del palcoscenico e lo spettacolo va avanti senza xamamina.
Inattesa forse, ma avvertibile, la complicità che tutti in palcoscenico hanno dimostrato. Sarà l’assenza di regia, o la presenza di un grandissimo protagonista dell’opera, ma tutto funziona e con un pubblico partecipe e attento dal primo all’ultimo momento. Tant’è che gli applausi interrompono soltanto prima del Non piangere Liù. Forse accorgendosi della tensione spezzata nessuno ha più interrotto, nemmeno dopo il “Vincerò” (!).
Il Dio dell’opera aveva le sembianze e i mezzi inenarrabili di Gregory Kunde, per la cui prestazione non servono parole ma la consapevolezza di essersi trovati al cospetto con uno dei più grandi artisti che la Storia dell’opera conosca. Solo lui è stato capace di interpretare negli stessi mesi l’Otello di Rossini e l’Otello verdiano. Ora Il suo Calaf, il suo canto, sono sempre ispirati da corrette intenzioni e da una voce gli viene dietro, smorza quando deve, pronuncia e fraseggia in modo esemplare, attraversa le note di passaggio con estrema facilità, ha pianissimo ideali per stile ed eleganza, acuti svettanti e morbidi.
Benissimo se la sono cavata anche Hui He nei panni della protagonista eponima, con una voce sempre capace di assecondare il suono solido e coeso che le accompagna il canto e Mariangela Sicilia, ammirevole Liù nelle intenzioni e nelle modulazioni, dotata di filati preziosi e interpretazione ineccepibile.
Ottimo lavoro del teatro che ha presentato un cast omogeneo per valori relativi e che non ha sminuito i personaggi di contorno trovando per il ruolo di Timur, la voce timbrata e idonea al personaggio del basso In-Sung Sim, per Altoum il sicuro ed elegante Bruno Lazzaretti, il trio Ping, Pang e Pong composto dai bravi Vincenzo Taormina (leggermente indisposto, forse), Cristiano Olivieri e Francesco Marsiglia (timbro di qualità non eccelsa, ma voce benissimo gestita).
Serata magica, come detto, e pubblico prima in delirio e poi felice. Uscita dal Teatro Comunale di Bologna piena di buonumore e facce sorridenti e soddisfatte. Questa è l’opera italiana. Viva Puccini!
Davide Toschi