VIVALDI Le quattro stagioni violino Daniele Orlando I Solisti Aquilani
Roma, Piazza del Museo Maxxi, 22 Giugno 2019
La PROM di Roma, riprendendo una sua iniziativa dello scorso anno allogata in un’altra sede, ha nuovamente organizzato una Festa della Musica. Nel pomeriggio del 22 giugno, negli spazi interni del Museo Maxxi, si sono svolti vari eventi ai quali non ho assistito. Le sera, nel piazzale esterno del Museo, è avvenuta l’esecuzione delle Quattro stagioni, preceduta dalla proiezione di un documentario. Il pubblico gremiva tutti gli spazi disponibili e il successo è stato trionfale.
Subito, fin dall’inizio della proiezione, ho avuto modo di stupirmi, e molto. In rete si trovano varie esecuzioni delle Stagioni con proiezione di fotografie bellissime che celebrano lo splendore della Natura. E ricordo che gli stessi Solisti Aquilani, quando erano ancora diretti da Vittorio Antonellini, seguivano le trasferte di una squadra di calcio, la Torino di Sangro che giocava in Serie B, facendo ascoltare le Stagioni con proiezioni di fotografie del Parco Nazionale d’Abruzzo. Splendide fotografie, manco a dirlo. Indipendentemente dalla loro qualità fotografica, le immagini del documentario in questione, ideato da Daniele Orlando, erano invece un che di orrendo: enormi blocchi di ghiaccio che si staccano dalla banchisa e galleggiano alla ricerca di un Titanic di passaggio, tsunami assatanati, schifosi rifiuti di vario genere, traffico automobilistico impazzito che inquina a gogò, urlanti discoteche e altrettali visioni paradisiache. Da incubo!
Siccome avevo ascoltato il disco con le Stagioni eseguite dai Solisti sapevo che le immagini idilliache, come manifesto preparatorio, non sarebbero state appropriate. Ma non potevo prevedere che avrei assistito alla apocalisse delle Stagioni. In pieno accordo con il documentario, l’esecuzione è stata violenta, con ritmo pesantemente marcato, con suoni di tutti i generi, dal relativamente dolce allo sgradevole, con molti e larghissimi cambiamenti di tempo non indicati in partitura, con raffiche impetuose di dinamica, con un solista – bravissimo – che sembrava essere alle prese con Paganini, non con Vivaldi, e con i suoi partner che si muovevano come se avessero una vespa errante nei loro calzoni. Nulla di elegante, nulla di signorile, lo stile elegante e signorile del neoclassicismo, dei Virtuosi di Roma, tanto per intenderci, lontano come Marte, e lo stile dei filologi, inaugurato da Harnoncourt, sfruttato per liberarsi dalla schiavitù della notazione ma accantonato anch’esso.
Che ne pensa la musica di Vivaldi, che in questa faccenda avrà pure qualche diritto di dire la sua? La musica di Vivaldi ci sta, con il solo secondo movimento dell’Inverno che chiede e ottiene un trattamento di favore. Dopo lo stile neoclassico e dopo la prassi autentica siamo dunque approdati a uno stile espressionistico che secondo me nasce dalla ideologia ambientalista. Che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo a tutto danno della Natura? Perché marciamo verso la desertificazione della Terra, perché non capiamo che la Terra diventerà come la Luna, bella da vedere in distanza ma inabitabile dall’uomo? E allora, riconosciamo le nostre colpe raffigurando la Natura qual è oggi, non qual era tre secoli addietro. Questo approccio, che i Solisti Aquilani stanno interpretando nel modo più radicale, non inizia nel 2019. Non ho fatto studi sull’argomento e posso perciò parlare soltanto in base a ciò che ho conosciuto più o meno casualmente. Per quanto ne so, dunque, penso che la svolta sia avvenuta alcuni anni or sono con Janine Jansen, alla quale, mi sembra, va la primogenitura.
La ricerca della primogenitura non è però importante. Importante è il fatto che il pubblico del Quartiere Flaminio, ascoltando in uno dei suoi spazi preferiti un’esecuzione delle Stagioni che secondo la norma non stava né in cielo né in terra, l’abbia applaudita forsennatamente, soggiogato da una forza brutale. E i tre milioni e mezzo di ascolti che il disco dei Solisti Aquilani ha avuto in rete nel giro di otto mesi dimostra che la musica colta, anche se getta via l’abito della festa e le scarpe di coppale, trova pur sempre un pubblico che in essa si riconosce. Il problema – scottante – è a questo punto il seguente: quello che ho constatato vale solo per le Stagioni, che sono musica a programma? Può valere anche per Bach, per Beethoven? La musica nata dalle gioie e dalle tragedie del passato può accogliere in sé le gioie e le tragedie del presente? Lo ripeto con altre parole: se l’interpretazione vivaldiana di Jansen-Orlando non è un episodio in sé concluso ma una esplorazione di un mondo tutto da conquistare, allora ciò che accade significa che nella storia dell’interpretazione stiamo passando dalla fase della esegesi alla fase della ermeneutica? Io mi auguro che così sia.
Piero Rattalino