SHOSTAKOVICH Sinfonia n. 7 in do maggiore op. 60 “Leningrado” Orchestra Sinfonica di Milano, direttore Andrey Boreyko
Milano, Auditorium di Milano, 17 febbraio 2023
La percezione di Shostakovich al di fuori della realtà sovietica nella quale è cresciuto ha da sempre ingenerato equivoci, dubbi e malintesi. Ne chiosava, con la consueta arguzia e profondità, Gavazzeni descrivendo, in alcune sue pagine diaristiche, come l’attesa di prime esecuzioni italiane avesse generato in alcuni critici una sorta di fratellanza umana e politica col compositore russo, tale da trattarlo, negli articoli preparatori all’evento, col diminutivo amichevole di “Shosta”, quasi fosse un caro compagno di studi e non solo. L’ascolto in sala, spiazzava poi le amichevoli confidenze, trovandosi di fronte ad un compositore che seguiva un percorso, lineare solo nella propria mente, ma sfaccettato e contorto nel risultato artistico.
Si potesse analizzarne a ritroso l’intero corpus, si potrebbe partire dai sorprendenti, metafisici esiti delle pagine ultime, la Sinfonia in la maggiore, il Quartetto in mi b minore, il Concerto per violoncello in sol minore, la Suite su versi di Michelangelo Buonarroti e la Sonata per viola, per comprendere a quale livello di rarefazione di scrittura e di intensità compositiva fosse giunto, quasi distillando dalle opere precedenti i tratti fondanti, per ottenere, infine, il risultato tanto desiderato.
Alla baldanza giovanile, all’entusiasmo rivoluzionario e alla fede leninista, imprescindibile quest’ultima per comprendere la figura umana e politica di Shostakovich sulla quale si è ampiamente scritto e dibattuto, va man mano affiancandosi un desiderio di ricerca strutturale, di riflessione circa i mezzi che la musica ha a disposizione per esprimere non solo concetti reali, ma anche metafisici e fino a che punto ci si possa spingere con la sperimentazione tecnica dalla quale non ci si può esimere, ma che deve essere non un fine ma mezzo per raggiungere un gradino di percezione superiore che, con tutta probabilità, stava da sempre a cuore al compositore russo.
La Sinfonia in do maggiore rappresenta uno di questi ibridi, nei quali la curiosità di investigazione del potenziale sonora di una struttura così complessa come è la sinfonia nelle sue proporzioni classiche, va ad accompagnarsi ad una necessità storica contingente e al tentativo, non del tutto riuscito, di allinearsi alle esigenze politiche.
Per cui lo sconcerto che si ha sempre nell’ascoltare brani che dovrebbero inneggiare alla vittoria di un popolo ben definito contro i soprusi dell’invasore, ma che nella realtà non si concludono con fanfare altisonanti, ma con timbri che ricordano i suoni metallici e soffocati del Boris Godunov, o del Crepuscolo wagneriano, è giustificato dai dubbi che Shostakovich stesso lasciava intravedere e riusciva con difficoltà a nascondere, soprattutto quando si doveva confrontare con il genere sinfonico a lui prediletto. L’umanità che emerge dal Boris Godunov, o dal finale del Crepuscolo degli Dei, ha le stesse caratteristiche della popolazione di Leningrado durante il lungo, infinito assedio subito nella Seconda Guerra Mondiale: si riaffaccia sconvolta e ammutolita al termine della devastazione voluta da forze più grandi e ingovernabili.
L’Orchestra Sinfonica di Milano, per le cure di Andrey Boreyko, ha regalato al suo affezionato pubblico una esecuzione matematica nei movimenti esterni e di carica partecipazione nei due centrali. Boreyko ha reso quasi come una danza macabra, di automi, il continuo accrescersi dei volumi sull’ostinato del tamburo nel primo movimento, raggiungendone con inesorabile violenza l’apice per poi abbandonarsi ad equilibrare l’atmosfera generale nel Moderato (poco allegretto) e Adagio successivi. Eccellenti gli interventi delle singole sezioni dei fiati, dai timbri vari, in linea con tutte le sollecitazioni del direttore, ed ottimi gli ottoni, dal colore solare, caldo, brunito quando occorre, così come le percussioni, protagoniste in primo piano, siano agli ultimi scoppi orchestrali dell’ultimo movimento, trascinanti gli archi, ai quali spetta un dialogo incessante al loro interno e con le altre sezioni.
Applausi lunghi e meritati per direttore e orchestra, omaggiati con numerose chiamate dal partecipe pubblico dell’Auditorium.
Emanuele Amoroso
Foto: Angelica Concari