GLUCK Alceste V. Gens, S. de Barbeyrac, S. Degout, M. Nunez Camelino, C. Skerath, T. Lavoie, F. Lis, K. Amiel. Orchestre et chœurs des Musiciens du Louvre Grenoble, direttore Sébastien Rouland regia Olivier Py scene e costumi Pierre-André Weitz luci Bertrand Killy
Parigi, Palais Garnier, 23 giugno 2015
Di Alceste esistono, come noto, due versioni. La prima, su libretto in italiano di Ranieri de’ Calzabigi, andò in scena al Burgtheater di Vienna nel 1767; la sua fonte principale non fu l’originale di Euripide, bensì il “Théâtre des Grecs”, pubblicato nel 1730 a Parigi a cura del gesuita Pierre Brumoy. Gluck e Calzabigi consideravano Alceste il frutto compiuto del loro progetto di opera riformata, come testimonia il celebre manifesto programmatico inserito come prefazione della partitura a stampa; librettista e compositore insistettero molto sull’importanza di avere interpreti disponibili a rinunciare ai virtuosismi vocali dell’opera seria in favore di una recitazione appassionata e naturale. Nel 1776 ci fu l’adattamento per l’Académie Royale de Musique su testo in francese di François-Louis Le Bland Du Roullet; ed è in questa seconda versione che l’opera ha conosciuto il suo maggior successo, eclissando la versione originale, di rado rappresentata da allora. Di recente La Fenice ha proposto un allestimento di questa Ur-Alceste, consentendo di apprezzarne la drammaticità secca e serrata; pur tuttavia si tratta di opera decisamente monocorde e sono dunque intuibili i motivi che, nel tempo, hanno fatto prevalere la più varia versione in francese.
La produzione cui abbiamo assistito a Parigi è una ripresa dell’allestimento che nel settembre 2013 ha segnato l’inizio dell’era-Lissner all’Opéra National. Olivier Py e lo scenografo Pierre-André Weitz hanno immaginato un’Alceste di spartana semplicità. Al proscenio campeggia un enorme pannello nero, una sorta di grande lavagna sulla quale cinque abilissimi ed applauditissimi disegnatori schizzano velocemente con il gesso figure più o meno complesse e dettagliate (entrando in sala prima che inizi lo spettacolo e durante l’ouverture possiamo apprezzare la facciata del Palais Garnier formarsi progressivamente sotto i nostri occhi). Poi cancellano e disegnano di nuovo altri ambienti, altre figure, perfino delle frasi; la sensazione di caducità delle vicende umane che ne deriva è netta e penetrante. Aprendosi, il grande pannello ne mostra un secondo in cima ad una breve scalinata; anche su questo i disegnatori suggeriscono luoghi, evocano simboli. Per il resto una sedia, un letto e nulla più. Un procedimento che all’apparenza potrebbe risultare ripetitivo, ma che è continuamente vivificato da un accurato lavoro sulla recitazione. Nel terzo atto, dopo l’unico intervallo, gli orchestrali salgono sul palcoscenico e la fossa diventa l’anticamera degli inferi. Messa in scena in definitiva interessante e ingegnosa nella sua astratta essenzialità.
Véronique Gens ha l’allure e la dizione scolpita della grande tragédienne. La sua Alceste offre una grande varietà di accenti: ora straziata, ora toccante, ora risoluta; il tutto nel quadro di un canto impeccabile, sia in termini di emissione che di fraseggio. Non le è da meno l’Admète di Stanislas de Barbeyrac, rising star del firmamento vocale francese, che fa mostra di solidità tecnica e di notevole personalità interpretativa. Personalità di cui trabocca Stéphane Degout, bravissimo nelle doppie vesti del Grand Prêtre e di Hercule, ruoli assai diversi tra loro, risolti associando una resa vocale esemplare ad una recitazione assai disinvolta. Eccellenti tutti e quattro i corifei, tra i quali spicca il soprano Chiara Skerath. Sul podio Sébastien Rouland dà il cambio per alcune recite a Marc Minkowski. Il confronto con il miglior direttore gluckiano dei nostri giorni non spaventa Rouland che, alla testa dei Musiciens du Louvre Grenoble, sigla una direzione asciutta e vigorosa, ma al tempo stesso duttile nel seguire ed assecondare le inflessioni del declamato.
Paolo di Felice
© Agathe Poupeney