CHOPIN Impromptu n. 3 in SOL bemolle op. 51, Mazurche in fa diesis op. 6 n. 1, in mi bemolle op. 6 n. 4, in SI bemolle op. 7 n. 1, in la op. 17 n. 4, in RE bemolle op. 30 n. 3, in do diesis op. 30 n. 4, in DO op. 24 n. 2, in fa op. 63 n. 2, in DO op. 33 n. 3, in la B 134, in do diesis op. 63 n. 3, in la op. 67 n. 4, in FA op. 68 n. 3, Sonata n. 3 in si op. 58 pianoforte Mikhail Pletnev
Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 7 giugno 2021
Mikhail Pletnev oggi non ha nulla di dimostrare. Seduto davanti al suo fedele Shigeru Kawai su una curiosa sedia regolabile, come fa ormai da tempo, al posto del tradizionale sgabello, si lascia lentamente cadere dentro la musica, senza preoccuparsi di trascinare con sé il pubblico, al contrario di quanto fanno i grandi oratori della tastiera. Il suo recital al Conservatorio milanese era l’appuntamento più importante della stagione primaverile ed estiva allestita a tempo di record dalle Serate Musicali con la ripresa dei concerti dal vivo. Nel suo Chopin, però, non c’era nulla di travolgente perché mancavano sia la brillantezza sia l’oratoria del canto, i tempi erano quasi sempre quieti, il suono raramente si spingeva verso il fortissimo ed il fraseggio sembrava trattenuto; le mazurche in particolare avevano qualcosa di rude nel timbro, come se fossero vera musica di danza e non stilizzazioni di una danza, e avevano qualcosa di riservato nel canto, sommesso, nella penombra.
Nella stessa penombra era avvolta la Sonata in si. Il movimento finale inizia in forte, con una grande perorazione in doppie ottave che cresce per poche battute fino ad approdare ad un tema molto agitato. Con Pletnev la perorazione non c’è, perché tutto resta sotto traccia, quasi dovesse implodere invece di esplodere, allo stesso modo in cui non avvertiamo la continuità del canto nel segno del legato nella Mazurca in la op. 17 n. 4 ed in cui la Mazurca in SI bemolle op. 7 n. 1 non prende veramente lo slancio. Pletnev, al contrario di un pianista come Barenboim, non fa nulla per attirare a sé il pubblico, eppure il pubblico si ritrova a cadere con lui dentro la musica.
Non è accattivante lo Chopin di Pletnev. Nelle mazurche il fraseggio tende a sfilacciarsi in lunghe attese e tutto è avvolto in una luce radente, in un’atmosfera resa ancora più sfuggente da un pedale usato molto ma sempre con accortezza. Non è accattivante, a ben vedere, nemmeno lo Chopin di un altro grande pianista russo, Grigory Sokolov (stessa generazione: classe 1957 Pletnev, classe 1950 Sokolov); con Sokolov, però, Chopin possiede un vigore tragico, mentre con Pletnev entriamo in una dimensione più intima sia pure non più rassicurante. Il canto sussurrato, il fraseggio tendente a spegnersi e la penombra del timbro creano un’atmosfera notturna e a tratti allucinata, con le voci secondarie sempre in evidenza, perché Pletnev ha un controllo digitale da favola che gli permette di differenziare con estrema precisione a livello dinamico e timbrico le varie voci della scrittura chopiniana. Lo ho rivelato il Largo della Sonata in si, in cui sotto la melodia cantabile si avvertiva il ribollire inquieto dell’accompagnamento, in un raffinato gioco di riflessi sonori, lo hanno rivelato le atmosfere timbriche della parte centrale della Mazurca in FA op. 68 n. 3, pungenti e sottili, lo ha rivelato lo stesso Improvviso in SOL bemolle op. 51 in apertura del recital – un unico tempo per poco più di un’ora di musica, come è usanza in tempi di Covid – con le sue melodie da contorni incerti.
A tratti ci si ricorda che Pletnev oltre che un gran musicista è un gran virtuoso, quando sciorina alla perfezione, in pianissimo, i passaggi veloci delle mazurche, quando attacca rabbioso le battute introduttive del Largo della Sonata in si, quando, sempre nella Sonata, si abbandona senza freni al furore virtuosistico della coda del movimento conclusivo: sono solo brevi lampi di luce in un recital tutto votato all’introspezione.
Alla fine arrivano lunghi applausi, senza eccessi però, perché con le norme di distanziamento sociale la sala è piena per meno della metà e perché gli spettatori hanno quasi timore di spezzare l’incanto di quanto appena ascoltato. Arrivano anche tre bis (L’allodola di Glinka, una fuga dal Clavicembalo ben temperato di Bach e la Sonata in re K 9 di Scarlatti), sempre più trasparenti, come per prendere a poco a poco le distanze dalla tempesta emotiva suscitata attraverso un’ora di musica, con la Sonata di Scarlatti a creare una sorta di dissolvenza sonora in conclusione, prima del silenzio.
Luca Segalla