BELLINI Bianca e Fernando S. Jicia, G. Misseri, N. Ulivieri, A. Cacciamani, G.B. Parodi, E. Belfiore, C. Vichi, A. Mannarino; Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice, direttore Donato Renzetti regia, scene e costumi Hugo de Ana
Genova, Teatro Carlo Felice, 21 novembre 2021
Fu Bianca e Fernando a inaugurare il Teatro Carlo Felice il 7 aprile 1828, esordio di un vero, ambizioso festival nel quale vennero proposte anche opere (nuove e non) di Donizetti, Rossini e Morlacchi. In occasione dell’apertura del nuovo Teatro, il 18 ottobre 1991, alcuni avrebbero voluto proprio la riproposizione di quella che era diventata una vera rarità del repertorio: diversi motivi condussero invece alla scelta del Trovatore, tra cui la volontà di offrire un titolo più popolare, il fatto che l’ente lirico genovese avesse già proposto l’opera giovanile di Bellini relativamente pochi anni prima, per il centocinquantesimo anniversario del Teatro, la curiosa coincidenza che Bianca fosse già stata programmata praticamente in quegli stessi giorni a Catania (di entrambi gli allestimenti è fortunatamente rimasta memoria discografica). In ogni caso l’attuale sovrintendenza del Carlo Felice ha deciso di riparare al «torto» nei confronti del compositore siciliano proponendo l’opera (profonda revisione della stesura originale, presentata due anni prima al San Carlo di Napoli) per celebrare il trentennale della riapertura, con uno sforzo progettuale non indifferente, che ha compreso un lavoro sulle fonti prossimo a quello di un’edizione critica (MUSICA ne ha riferito dettagliatamente sul numero di novembre), l’allestimento nel foyer del teatro di una piccola mostra di manoscritti e materiali d’epoca, un incontro di studio sull’opera e varie iniziative collaterali.
Occorre precisare subito che in realtà, nella sostanza, la versione presentata in quest’occasione si differenzia davvero poco dalla redazione più conosciuta dell’opera: quella dell’edizione Ricordi, alla base di quasi tutte le riproposte moderne di Bianca e Fernando (l’originale napoletano, che recò il titolo occasionale di Bianca e Gernando, è stato offerto pochi anni fa al Festival di Wildbad e discograficamente dalla Naxos). Situandosi, tra scrittura e revisione, sia a monte che a valle del Pirata (che fece furore a Milano nell’autunno del 1827), l’opera, pur risultando ancora drammaturgicamente acerba, è interessantissima per una piena comprensione dell’evoluzione belliniana, e contiene accanto a qualche numero non molto ispirato (a cominciare dalla Sinfonia«genovese» ricostruita per quest’occasione) anche musica notevole, non necessariamente, peraltro, dovuta alla seconda stesura: in particolare il secondo atto, a partire dalla bellissima Romanza di Bianca «Sorgi, o padre», sembra prendere decisamente quota avvicinandosi al Bellini maturo, pur con qualche discontinuità, in particolare nella Scena della prigione. Diverse pagine e idee del resto furono poi ripresi da Bellini in opere successive, soprattutto in Norma (la Cabaletta di Bianca nel primo atto e il Coro nel secondo).
L’argomento in due parole: il malvagio Filippo ha usurpato il trono di Carlo, duca d’Agrigento, rinchiudendolo segretamente in carcere, esiliandone il figlio Fernando e convincendo la figlia Bianca a concedergli la sua mano. Fernando però torna sotto false spoglie e riesce a guadagnarsi la fiducia del tiranno, a illuminare la sorella, ignara di tutti i retroscena, e a liberare il padre. Spicca dunque la relativa anomalia di un’opera (proto)romantica priva di scene amorose (nella Cavatina di Bianca l’affetto un po’ pragmatico per Filippo appare come un fragile guscio, destinato a infrangersi al primo sussulto), sostituite dalla presenza molto forte degli altri legami familiari, pur problematici. Soltanto la luce dei vari ricongiungimenti, in effetti, rischiara personaggi per lo più tormentati (dalla sete di vendetta, dall’odio, dal rimpianto); che solo occasionalmente, nelle Cabalette, danno sfogo a una gioia pregustata, più o meno a ragione.
Salome Jicia ha offerto un ritratto molto intenso della protagonista, mettendo in campo un timbro adatto al personaggio (che non è una fanciulla, ma una donna matura) e un canto particolarmente coinvolgente nei momenti patetici ed elegiaci, come la Romanza a due voci «Sorgi, o padre», il Larghetto poco mosso «Ahi donna misera!» nel Duetto con Fernando oppure, nel Finale, il Largo espressivo «Deh! Non ferir». Anche se nella prima napoletana fu poi ricoperto da Giovanni Battista Rubini, in entrambe le versioni il personaggio di Fernando (a Catania impersonato da un Gregory Kunde nel pieno dei suoi mezzi) venne calzato sulla voce di Giovanni David: ne risulta un ruolo vocalmente «impossibile», ricco di sovracuti e passaggi in tessitura proibitiva, ma che spesso richiede anche un canto dotato di accento nel registro centrale (il personaggio è per gran parte dell’opera indignato o afflitto). Giorgio Misseri ha coraggiosamente affrontato tali asperità armato di centri non molto corposi né di colore particolarmente nobile, di un registro acuto luminoso e svettante (in particolare evidenza nel Terzetto) e di sovracuti a volte notevoli, altre volte spremuti o pregiudicanti la pulizia della linea. Il giovane tenore andrebbe dunque riascoltato in ruoli meno problematici o in condizioni davvero ottimali (anche se nessun annuncio in tal senso ha preceduto la recita, ci è giunta voce di una sua lieve indisposizione).
Nicola Ulivieri ha saputo conferire a Filippo un volto credibile e autorevole, cosa non facile dato che il personaggio è senz’altro il più debole dell’opera – fondamentalmente un Cattivo da romanzo d’appendice; peccato solo che il baritono trentino sia naufragato nella coloratura della Cabaletta. Anche se la sua presenza aleggia in tutta la vicenda, Carlo appare soltanto nell’ultimo quarto dell’opera, cantando poco più che la Cavatina «Da gelido sudore» che nel 1828 fu peraltro omessa, qui giustamente ripristinata: Alessio Cacciamani vi ha prestato voce sonora, ben proiettata. Tra i comprimari infine si è distinta Carlotta Vichi, Eloisa dal timbro corposo che nella poetica Romanza a due ha creato con la Jicia un piacevolissimo amalgama.
La direzione di Donato Renzetti ha cercato di infondere vigore ai momenti più deboli dell’opera; sarebbe stato auspicabile che incoraggiasse i cantanti a qualche variazione in più nei da capo, mentre qualche piccolo sfasamento nelle scene d’assieme è senz’altro imputabile alla posizione sopraelevata del coro, dovuta alle consuete misure anti-Covid. Veniamo dunque a parlare della messinscena di Hugo de Ana: uno spettacolo di notevole impatto visivo, basato su una grande struttura circolare che nella sua completa espansione rammenta una singolare commistione tra teatro anatomico e osservatorio astronomico. Le ambientazioni in effetti, che mescolano tre epoche (quella dei fatti, quella della creazione e la nostra), hanno presentato, come si direbbe in campo enigmistico, rebus per solutori più che esperti, accanto a simbologie più leggibili (le funi che condizionano a più riprese i movimenti dei protagonisti) e a qualche involontario sconfinamento nel comico: come la propensione di Filippo per sfere e mappamondi (chi non ricorda Il grande dittatore di Charlie Chaplin?) e la presentazione di Carlo in carcere non solo legato, ma bendato e trafitto a mo’ di San Sebastiano da una precisa rosata di (moderne) frecce da tiro.
Ancora poco pubblico, purtroppo. Eppure l’occasione offriva più di un elemento di attrattiva: confidiamo che presto le sale possano tornare davvero a riempirsi in sicurezza!
Roberto Brusotti