L’omaggio torinese di Martha Argerich a Maria Tipo

Foto: Mattia Gaido

RAVEL Le tombeau de Couperin; Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore MUSORGSKIJ/RAVEL Quadri di un’esposizione pianoforte Martha Argerich Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, direttore Charles Dutoit

Torino, Auditorium del Lingotto, 11 febbraio 2025.

Quando si accorre ad ascoltare un’artista che ha saputo imporsi quale riferimento per tutta un’epoca, in questo caso nel campo dell’interpretazione pianistica, può capitare di sentirsi animati da un gradevole moto di gioia, che presumibilmente ci ricondurrà alle registrazioni che abbiamo potuto ascoltare da giovanissimi, quando non in tenera età; ma se si incorre nella sorte di dover esprimere il nostro parere nel quadro di un simile contesto emotivo, le cose possono farsi (da un certo punto di vista) un po’ meno confortevoli e anzi ci obbligano a scontrarci con un primo, arduo quanto ineludibile problema: quello di lasciare che le proprie passioni e idiosincrasie cedano spazio a un’idea onesta (che naturalmente non significa necessariamente vera) rispetto a quanto si sta per ascoltare. E tutto ciò può essere per l’appunto molto complicato, in circostante simili: è evidentemente impossibile scrivere di un concerto di Martha Argerich con il medesimo spirito con cui si va ad ascoltare il pianista diciottenne fresco del concorso di Varsavia, talentuoso che sia e per quanto florido possa immaginarsi il suo avvenire. È molto diverso per tante ragioni, tra cui per il rango accordato alla grande artista (frutto di un rispetto guadagnato sul palco in decenni di attività e trasmesso in un secondo momento alla temperie psicologica collettiva) e quindi all’auctoritas, alla quale dobbiamo però saper guardare in una maniera che sia improntata, per quanto possibile naturalmente, a obiettività di giudizio.

Tale premessa è apparsa opportuna contestualmente alla serata di oggi, serata sostanzialmente tutta raveliana dal momento che, com’è noto, il compositore francese mise lo zampino anche nei musorgskiani Quadri di un’esposizione, destinati dall’autore russo al pianoforte, ma che proprio Ravel orchestrò con i felicissimi esiti che tutti conoscono. La serata si apre tuttavia con il famoso omaggio dello stesso Ravel a Couperin (Le Tombeau de Couperin), ennesima testimonianza del continuo dialogo che i compositori francesi tra Otto e Novecento intrattennero con i propri antecessori del siècle des Lumières. Charles Dutoit, protagonista della serata insieme alla Argerich, esprime una forza e un’intensità sorprendenti (il prossimo anno il direttore d’orchestra svizzero compirà novant’anni): la tranquillità, l’incisività, l’autorevolezza del suo modo di far musica gli derivano evidentemente dalla grandissima esperienza accumulata in una vita al fianco delle più prestigiose compagini orchestrali del mondo. Il nostro posizionamento in platea, quasi tra le prime poltrone laterali, ci consente di poterne osservare bene la gestualità e talvolta la mimica facciale, cioè a dire il modo con cui Dutoit interagisce con i propri orchestrali, situazione privilegiata e da cui peraltro si può apprendere moltissimo. Tuttavia non è qui che, va detto, l’orchestra monegasca offre il meglio di sé, e in tal senso non sempre le cose andranno meglio nell’immediato seguito. Non certo, quantomeno in alcune circostanze, in quello che è stato probabilmente il momento più atteso della serata, protagonista finalmente la Argerich alle prese con il Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore di Ravel, suo vecchio cavallo di battaglia. Qualche ingresso degli ottoni non proprio impeccabile parrebbe voler mettere i bastoni fra le ruote al discorso musicale, e nemmeno i legni sembrano trovarsi nella loro forma migliore. Dal canto suo la pianista argentina esprime la consueta immediatezza e semplicità di approccio che si riflette nel suo modo di suonare, caratteri che si ripropongono anche in questa circostanza, sebbene il complesso delle idee interpretative esibite quest’oggi sia per certi aspetti parecchio discosto dall’interpretazione (stesso brano) che ascoltammo nell’ormai lontano 2009, sempre a Torino, nella sala dell’Auditorium della Rai. Il punto è che questa artista prossima alle ottantaquattro primavere non solo non ha perso smalto, attenzione, sicurezza, cura in tutto ciò che fa, ma esprime una ancora assai vitale curiosità che si traduce in una mai sopita volontà di ricerca interpretativa. Talvolta, la Argerich ci appare quasi “improvvisare” un colore, mettere in risalto un particolare rapporto armonico-melodico, un rubato eccetera, e questo perché dispone di una gamma talmente ampia di opportunità espressive da poter compiere (con estremo agio) in piena coscienza una scelta adatta al momento, all’acustica della sala, al rapporto dialogico con l’orchestra. Su quest’ultimo aspetto vorremmo dire ancora qualcosa: già in altre occasioni fummo colpiti dal suo estremo coinvolgimento e dalla sua estrema attenzione, talvolta quasi ostentata per come appare, nei confronti di ciò che fanno le sezioni dell’orchestra e i vari strumenti; ora, tutto ciò potrà sembrare banale sottolineare, ma soltanto su un piano teorico, se pensiamo alla schiera di solisti che prendono il proprio ruolo un po’ troppo alla lettera. Voglio dire che per Martha Argerich, che ha accumulato un’esperienza importantissima anche in ambito cameristico, un concerto per pianoforte e orchestra si gioca davvero nel confronto con gli altri strumenti alla ricerca di un’unità estetica, nella convergenza di intenzioni, di suoni, di colori, non nella preminenza e talvolta nella prevaricazione del solista rispetto agli altri musicisti sul palco. Questa sera la pianista argentina sapeva di avere a che fare con una buona orchestra (sebbene non tra le migliori) e con essa ha tentato di armonizzarsi nel modo più efficace e nel rispetto del compositore.

Terminata l’esecuzione del Concerto di Ravel e accompagnata da fragorosi applausi, Martha Argerich si è subito ripresentata sul palco, microfono in mano, per un commosso omaggio alla grande pianista napoletana Maria Tipo, scomparsa il giorno prima. Visibilmente emozionata, la pianista argentina ha dichiarato che la Tipo rappresentò per lei un’importante fonte di ispirazione, condividendo con il pubblico il ricordo della prima volta che poté ascoltarla in concerto, ciò che avvenne tanti anni or sono nella sua Buenos Aires. «Mi mancherà» ha concluso la Argerich, prima di sedersi al pianoforte per eseguire la prima delle Kinderszenen di Schumann (op. 15). Dopodiché, dopo aver ceduto alle insistenze del pubblico, si è riaccomodata davanti allo strumento per eseguire la Gavotta della Suite inglese n. 3 in sol minore di Bach, altro cavallo di battaglia (eseguito peraltro con un interessante utilizzo del pedale tonale, cioè il pedale centrale, volto a valorizzare la melodia sul tappeto dei bassi, insieme ad altre scelte non usuali che però funzionano molto bene) e, in chiusura, la Pavane pour une infante défunte, ancora di Ravel, bis questo, per quanto ne sappiamo, non consueto nel repertorio della Argerich.

Della perizia di Ravel circa le tecniche di orchestrazione e sulla sensibilità coloristica nelle combinazioni tra i vari strumenti si è detto e scritto moltissimo; sicché, dopo l’intervallo, in qualche maniera il pubblico dell’Auditorium del Lingotto può seguitare ad ascoltare il compositore francese, benché attraverso la musica di Modest Musorgskij, vale a dire nella trascrizione orchestrale dei Quadri che lo stesso Ravel realizzò nel 1922. La trascrizione da uno strumento ad un altro, o da un organico ad un altro, lungi dal confinarsi in una pratica meramente meccanica consiste infatti nella rielaborazione del materiale musicale, finendo quindi per diventare espressione di un atto creativo esso stesso, oltre che dimostrazione di notevole abilità tecnica e sensibilità artistica. Finalmente legni e ottoni appaiono compatti, più composti e meno incerti. Più in generale è qui che le qualità dell’Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo emergono davvero. Da figura che si staglia tra gli altri orchestrali (come era accaduto nella prima parte della serata), Dutoit ci appare ora perfettamente amalgamato con i suoi musicisti: non più elemento dominante volto a tenere a bada intemperanze e inesattezze dell’orchestra, ma elemento perfettamente contiguo e anzi fuso con la stessa compagine che dirige.

Marco Testa

Data di pubblicazione: 14 Febbraio 2025

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