BOITO Mefistofele J. Relyea, J. Guerrero, M. Agresta, S. Koberidze, M. Miglietta, L. Trinciarelli; Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Simon Stone scene e costumi Mel Page
Roma, Teatro Costanzi, 2 dicembre 2023
Mefistofele? Un problema, da sempre. Dalla prima versione monstre del 1868 alla Scala, a quella scorciata e revisionata del 1875 a Bologna; dal successo e dalle cento e cento produzioni fino all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, alla rarefazione sempre più accentuata, fino ad un ostracismo oggi innegabile. E riproporlo ai nostri giorni, ha ancora senso? E comunque quale potrebbe esservi un’ermeneutica tale da renderne comprensibile la (costosa) presenza nelle odierne programmazioni teatrali? Diremmo che il Teatro dell’Opera di Roma ha trovato una via (quasi) ideale per venirne a capo. Certo, sia ben chiaro, il prodotto è di quelli che vanno guardati come documento d’epoca e non come capolavoro che si leva sulle vette e sulle nuvole del genio creatore. A cominciare da un libretto che certo è il più brutto del suo autore (Falstaff a confronto è un gioiello): per i pretenziosi asserti programmatici della consorteria scapigliata, per uno sgalembrato laicismo o anticlericalismo o dogmatismo massonico che dir si voglia, giusto giusto proclamati alla vigilia della presa di Roma o a maggior causa di scherno, con questa da poco avvenuta. Per un lessico esotico e forzato, con una metrica che rispetto alla musica pensata, assai volte non collima o sovrasta o sfugge via. E per una drammaturgia che inventa o reinventa scene, sequenze, personaggi goethiani in modi tanto improbabili, quanto talora offensivi per il buon senso. Per contro la musica del Mefistofele è spesso eccelsa: per estro inesauribile, per potenza che neppur il più barbarico dei fantasy potrebbe suggerire; per profonda discesa nei più riposti meandri dell’Umano, per il viraggio dello schema grandoperistico a qualcosa che musicalmente è atipico, ma alla fin dei conti funziona e fa luogo ad uno spettacolo sonoro clamoroso e avvincente come pochi se ne possono ascoltare. Offrendo, casomai, anche il destro per dribblare le native problematiche della partitura boitiana celandole dietro una mirabile successione d’arie e ariosi e duetti e cori e soprattutto melodie tali, se superbamente cantati, da appagare qualsiasi pubblico, addomesticando il drago a mero vettore d’edonismo vocale. Ed è così, è con i Caruso e i Gigli, con i De Angelis e i Pasero, è con le Callas e le Olivero e le Tebaldi, che il Mefistofele è senza danni passato di decennio in decennio. E però con il finire di quell’olimpo di voci baciate dal cielo, è anche passato nella soffitta delle cose dimenticabili.
Il Teatro dell’Opera, dicevamo, ci sembra sia venuto a capo di tutto ciò in modo sapiente e quasi del tutto riuscito. Anzitutto con una direzione d’orchestra di Michele Mariotti che ascriviamo senza dubbio alcuno al meglio da lui finora ascoltato. Poiché egli ha risollevato l’orchestra e il coro del Mefistofele ad un protagonismo che mai nega i cataclismi fonici e le iperboli di voci angeliche o divine, ma reperisce la sua alta nobiltà qual testimone d’una vicenda di stile e di cultura comunque esistente, ma da rileggersi storicizzandola senza pietà. L’assoluta bellezza e perfezione strumentale, il ductus melodico sempre in evidenza, l’indicibile, sfavillante bravura delle compagini corali (Ciro Visco s’ebbe applausi interminabili) sono state parte fondamentale di un’agnizione della partitura boitiana di certo risanante assai e comunque tra le più intelligenti ed affascinanti oggi agli atti, anche con lo sguardo ad una pur cospicua discografia. Accompagnava tal maiuscolo esito musicale, una regia dell’australiano Simon Stone che abbiamo trovata di totale pertinenza. Proprio perché inventata col gusto acido del totale sberleffo ad ogni pedissequa pretesa di medioevi, di cieli e di nimbi, di casette modeste e di orridi montani. La nettezza algida dei colori e delle linee, l’immobilità iconica dei cori, i paradossi di gesti e immagini alieni, l’eleganza d’alcuni ambienti, l’occhio appena strizzato al Fellini più circense, hanno sempre conservato la misura se non d’un buon gusto assoluto, certo d’una pensata ricerca. Ove tutto – musica, direzione e regia – è parso francamente perdere di tonicità è stato nel IV atto, la scena del Sabba classico, quadro debole sotto i tre profili or detti e di cui s’è ben detto “brevità, gran pregio”.
Comunque è certo che una tal ripresa del Mefistofele, senz’altro impegnativa, meritava un cast vocale assai più calzante di quello visto e udito al Costanzi. Ove il basso John Relyea forse era il migliore in campo, per un’indubbia forza di voce, per qualche giusto sarcasmo, per una recitazione da laido mattatore. Però l’emissione, forse la stessa qualità naturale del suono, non sono gradevoli e il legato e la morbidezza vi son quasi sempre assenti (non tutta la parte è declamata o gridata a squarciagola). Il peggiore è stato invece il tenore Joshua Guerrero, poco interessato ad un qualsiasi scavo del ruolo e con al suo arco non più di qualche sonoro acuto. Maria Agresta è sempre una cantante di ottimo rango: ma quale Margherita/Elena ci è parsa decisamente fuori parte e come un po’ ingrigita e dimessa, con un appuntamento fondamentale come “L’altra notte in fondo al mare” in verità decoroso, ma privo d’ogni necessario passo nel delirio e con alcuni dettagli tirati via. Lodevole senza riserve il Wagner di Marco Miglietta, mentre Sofia Koberidze forse ha meglio brillato come Pantalis.
Applausi prolungati per tutti, ma soprattutto per i due direttori e qualche (prevedibile) contestazione per Simon Stone.
Maurizio Modugno