GLUCK Orfeo ed Euridice L. Polverelli, M. Antenucci, V. Granatiero; Orchestra di Padova e del Veneto, direttore Marco Angius Coro Iris Ensemble, maestro del coro Marina Malavasi danzatori Compagnia Lubbert Das, coreografie Nicoletta Cabassi
Bassano del Grappa, Teatro Remondini, 14 luglio 2019
Che Marco Angius sia uno dei migliori e più avveduti direttori della sua generazione, coltissimo e sempre attento a proporre programmi intelligenti e curiosi, lo si sapeva da un po’. La sua passione per il repertorio contemporaneo, di cui è uno specialista indiscusso, è la chiave con cui si accosta alla lettura delle partiture che di volta in volta decide di posare sul suo leggio.
Così è stato anche per questa intrigante lettura di una pietra miliare del repertorio operistico, l’Orfeo ed Euridice di Christoph Williblad Gluck, co-produzione del Comune di Padova e di Operaestate Festival Veneto.
Acclamato fin dalla prima viennese del 1762, Orfeo ed Euridice non è solo il capolavoro di Gluck, è anche l’opera che nel Settecento rivoluzionò il teatro musicale. Un lavoro capace ancora di conquistare il pubblico di oggi, sia per la vicenda – la sfortunata storia d’amore tra Orfeo e Euridice – sia per la partitura, che sintetizza diverse tradizioni musicali europee, e infine per il libretto, che esalta l’umanità dei protagonisti e la forza del loro sentimento.
Angius, prendendo spunto dall’atemporalità della vicenda narrata, dai numerosi rimaneggiamenti subiti dall’opera, e dalle partiture ad essa ispirate, ha avuto l’intelligente ardire di inserire nella successione dei numeri musicali brani di altri autori, o autoimprestiti dello stesso Gluck.
Fa iniziare l’opera con un lacerto della Seconda Sequenza per arpa di Berio del 1963, nella quale si ascolta il “suono” delle corde spezzate della lira di Orfeo, i cui accordi non bastano a salvare Euridice dagli inferi. Con sorprendente naturalezza, poi, i suoni dissonanti dell’arpa si sciolgono nelle armonie dell’ouverture, non quella scialba scritta da Gluck, ma quella dell’Orpheus di Liszt, composta nel 1854 quando Liszt diresse l’Orfeo a Weimar, che diverrà poi il suo quarto poema sinfonico.
Subito dopo la prima scena del secondo atto, quando Orfeo trionfa sugli spiriti infernali grazie alla sua arte canora, Angius inserisce la “Danza delle Furie” dal balletto Don Juan (1761) dello stesso Gluck, mentre – e questa ci è sembrato davvero il momento più emozionante – si ascolta nuovamente, ma questa volta nella versione integrale, la Seconda Sequenza per arpa di Berio, laddove Euridice perde di nuovo la vita quando i due amanti non resistono alla legge: quella di non rivolgersi lo sguardo.
Un’operazione che Angius definisce di archeologia musicale, ossia di disvelamento di strati musicali sovrapposti nel corso dei secoli su una partitura: se l’operazione filologica tende a collocare l’opera fuori dal tempo, “l’intento archeologico è quello di ricostruire la rappresentazione di un percorso temporale che può spiazzare e farci ripensare le categorie stesse della storia”. L’opera, del resto, ha subito un processo di revisione continua a seconda dei contesti culturali in cui venne eseguita, trovando sempre una nuova veste, vuoi per la mutazione del testo e della lingua, vuoi per la modificazione della strumentazione che dalla prima viennese del 1762 attraversa praticamente un secolo e mezzo di storia della musica europea, fino alla versione di Berlioz e ai pasticci editoriali di fine Ottocento. “Non abbiamo quindi l’Orfeo – sostiene Angius – ma gli Orfei, a rigore, e tutti con l’approvazione dello stesso Gluck”: è questo il punto di partenza e di arrivo dell’“attualizzazione” voluta da Angius.
Il quale ha diretto la partitura con sorprendente fantasia e con asciuttezza di fraseggio, scampando il pericolo, sempre dietro l’angolo con il capolavoro gluckiano, di una certa monotonia derivante dall’uniformità agogica che caratterizza quasi tutti i numeri musicali. Incalzando i cantanti nei recitativi e articolando in maniera trasparente le voci orchestrali, ha saputo ricreare un Orfeo che è parso nuovo. Merito anche dell’Orchestra ben preparata e compatta negli impasti e di una compagnia di canto ben assortita. Ha sorpreso per vigore drammatico l’Euridice volitiva di Michela Antenucci, che ha ridato linfa ad un personaggio confinato a pochi recitativi, a un duetto e un’aria con Orfeo, ma riletto facendone la chiave per intendere tutto il dramma. Laura Poverelli ha vestito i panni del protagonista, sforzandosi da cima a fondo a variare il fraseggio, a smuovere la linea vocale che mediamente si attesta su un tono di straziato – o malinconico – ripiegamento. Purtroppo la sua voce di mezzosoprano è apparsa piccola per la vocalità contraltile dell’eroe gluckiano che, nella versione di Vienna, era stata scritta per il castrato Gaetano Guadagni. Una tessitura troppo grave per la cantante senese, che si è trovata a più riprese a forzare e a gonfiare innaturalmente il registro grave. Resta il fascino dell’interprete e la notevole presenza scenica, evidente nonostante si sia trattato di una semplice mise en éspace. Buona anche la prova di Veronica Granatiero nella breve parte di Amore.
Causa Giove pluvio, lo spettacolo è stato trasferito dalla bella cornice del teatro all’aperto “Tito Gobbi” al palcoscenico un po’ angusto del Teatro Remondini. Un peccato perché tutto è risultato un po’ compresso: l’orchestra, posta sul fondo del palcoscenico dietro un velario trasparente; il coro che ha faticato a realizzare i pochi ma significativi movimenti scenici richiesti, e soprattutto i bravissimi ballerini della Compagnia Lubbert Das, che mimavano le anime degli inferi con movimenti disarticolati e volutamente lentissimi.
Stefano Pagliantini
Foto: Giancarlo Ceccon