VIVALDI Juditha Triumphans M. Custer, P. Gardina, T. Iervolino, G. Semenzato, F. Ascioti; Coro e Orchestra del Teatro La Fenice, direttore Alessandro De Marchi maestro del coro Claudio Marino Moretti regia Elena Barbalich scene Massimo Checchetto costumi Tommaso Lagattolla light designer Fabio Barettin
Venezia, Teatro La Fenice, 30 giugno 2015
Capolavoro indiscusso della maestria compositiva e dell’estro coloristico, tipicamente veneziano, del Prete Rosso, l’oratorio Juditha Triumphans è stato eseguito alla Fenice in una versione scenica curata dalla regista Elena Barbalich. Una scelta che non stupisce e che si allinea con altri tentativi analoghi condotti su partiture non nate per il teatro eppure così intrise di carica drammatica da giustificarne una loro messa in scena. Si pensi alle drammatizzazioni delle passioni bachiane di Jonathan Miller, di Pierluigi Pizzi (quest’ultimo proprio alla Fenice nel 1984) o di Peter Sellars, o alla messa in scena della Winterreise di Schubert di Bob Wilson o più recentemente di William Kentridge ad Aix-en-Provence. Dell’oratorio vivaldiano si contano altre versioni sceniche a partire da quella pionieristica del 1941 a Siena, ripresa nel 1958 nell’ambito del Festival Vivaldi nell’Isola di San Giorgio a Venezia, e successivamente nel 1981 a Schwetzingen e a Londra nel 1984. In anni più recenti Davide Livermore ne ha curato una produzione per Opera Barga nel 2000 e lo scorso anno per il Palau de les Arts di Valencia, infine nel 2000 Massimo Gasparon accoppiò l’Attila di Verdi alla Juditha sulla base di una relazione tra il personaggio vivaldiano di Giuditta e quello verdiano di Odabella che uccide l’Unno. Un’attenzione per questo lavoro che non può non nascere che dal fascino del soggetto e dalla sua sublime caratterizzazione musicale.
Come si sa, l’oratorio vivaldiano, l’unico dei quattro di cui si hanno notizie ad esserci pervenuto, fu commissionato a Vivaldi per celebrare la vittoria della Serenissima sui Turchi e la difesa vittoriosa dell’isola di Corfù, all’indomani della battaglia decisiva, il 18 agosto del 1716. Già a novembre di quell’anno l’oratorio venne eseguito alla Pietà alla presenza dello stesso Johann Matthias von der Schulenburg, il generale che aveva sconfitto i turchi a Corfù. La commissione, di chiaro intento politico, civile e religioso, spinse il librettista Giacomo Cassetti a creare, attraverso la storia di Juditha e la sua vittoria contro l’invasore Holofernes, una precisa allegoria di Venezia vittoriosa sui Turchi.
Vivaldi vi impiega in maniera spettacolare tutte le risorse strumentali e il virtuosismo esecutivo dell’orchestra della Pietà, da lui stesso diretta: oltre al normale complesso degli archi compaiono due flauti diritti, due oboi, due clarinetti, chalumeau, due trombe, timpani, mandolino, quattro tiorbe, organo obbligato, viola d’amore e cinque «viole all’inglese» (ossia viole da gamba). Una varietà di timbri e di colori, straordinaria perfino per la Pietà, impiegata da Vivaldi in modo geniale ai fini della caratterizzazione drammatica – nonché psicologica – del coro e dei personaggi. Quest’ultimi tutti affidati a voci femminili, limite questo che ne mitiga l’impatto drammatico ingenerando una certa uniformità di tinte vocali che in parte appiattisce gli intrecci e le tenzoni tra i diversi personaggi. Data dunque la rilevanza dello strumentale bene ha fatto la regista a mettere in primo piano l’orchestra che trova spazio sul palcoscenico: è al suo interno, infatti, che le vicende si sviluppano, proprio nell’intreccio degli strumenti, nei continui contrasti ritmici, nelle pennellate di colore ora turgido ora acquerellato, nel trascorrere delle emozioni tra gli archi e i fiati. I cantanti si muovono su una scena rialzata rispetto al piano orchestrale, agendo con movenze rallentate, specie il coro, e con pose classicheggianti, costruendo delle figurazioni che ricordano da vicino i teleri di Tintoretto della Scuola Grande di San Rocco, nei quali prevalgono luci di taglio e ampie zone in ombra. Soluzione particolarmente azzeccata, poi, quella di avvalersi degli effetti creati dai fari beam (light designer Fabio Barettin) che tracciano lame di luce verticali ed orizzontali per ricreare una sorta di prigione, quella delle vergini di Betulia e al contempo quella delle ragazze della Pietà, che cantavano nell’omonima chiesa veneziana nascoste dietro ad una grata e vivevano in stretta clausura. Un praticabile davanti all’orchestra porta poi i cantanti in primo piano, trovandosi a intonare le loro emozioni in faccia al pubblico.
Il limite maggiore di questa proposta è stata però la direzione di Andrea De Marchi e purtroppo la resa arruffata dell’orchestra, quest’ultima evidentemente in difficoltà nell’eseguire un repertorio che richiede una confidenza con la prassi esecutiva che obiettivamente l’orchestra della Fenice non possiede. Fin dalla sinfonia di apertura – non presente nell’autografo vivaldiano ma opportunamente inserita da De Marchi riprendendola da altre composizioni del Prete Rosso – non si contano i passaggi deficitari (il fallosissimo violino solista) che hanno rovinato alcuni sublimi momenti come l’aria di lamento “Veni, veni me sequere” con l’accompagnamento di un calantissimo chalumeau (o salmoé, sorta di flauto dritto dotato di ancia). De Marchi, a parte pochi momenti e soprattutto nella seconda parte, ha informato l’esecuzione ad un tono dimesso ed elegiaco che ha appiattito non poco la paletta coloristica e ritmica vivaldiana, ingenerando una certa monotonia. Una sorpresa inaspettata da parte di uno specialista come lui, che pure aveva offerto ben altra prova nell’incisione Naïve di qualche anno fa. Siamo convinti che una delle ragioni sia da attribuire al mancato affiatamento con l’orchestra, che non è certo quello splendido complesso di specialisti che è la sua Academia Montis Regalis.
Di ottimo livello invece il cast a cominciare dalla protagonista, Manuela Custer, che ha convinto sia come vocalista che come interprete, facendo prevalere i tratti della donna più che quelli della crudele guerriera. La sua parte è scandita da una successione di arie tutte di altissima qualità e di carattere contrastante che le hanno dato modo di mettere in luce le sue doti, nonostante qualche fiato corto e qualche forzatura nel registro grave. Applauditissima Paola Gardina nella parte sopranile di Vagaus, servo di Oloferne, ruolo asperrimo se non altro per la pirotecnica aria di furore “Armatae face”, risolta con sfidante precisione. Un Oloferne combattivo, barbaro e sensuale è stato quello ritratto da Teresa Iervolino grazie ad un colore vocale caldo e timbrato, mentre ci è parsa eccessivamente forzata nella ricerca di un timbro contraltile che non possiede Francesca Ascioti nelle vesti del sommo sacerdote.
Stefano Pagliantini
© Michele Crosera