Siamo arrivati alla fine? Così sembra, almeno ufficialmente. Parlo naturalmente del Progetto Martha Argerich che, giunto alla quindicesima edizione, sembra che non ne avrà una sedicesima per l’interruzione del sostegno finanziario da parte della BSI, ora coinvolta anche in preoccupanti scandali finanziari. Del Progetto abbiamo parlato tante volte su MUSICA: la sua eccezionalità, nel bene e nel male, è rimasta immutata negli anni. Attorno alla grande pianista argentina, spesso all’altezza della sua fama, a volte più svogliata, ma disponibile ad affrontare un amplissimo repertorio cameristico, una grandissima quantità di artisti: alcuni di livello eccezionale, molti di buon livello, e altri la cui presenza si giustifica solo con relazioni umane che poco hanno a che vedere con la musica. E programmi spesso lunghissimi, ipertrofici, che nelle serate migliori si trasformano in gioiosi happening, in quelle meno riuscite in sottili torture. L’edizione 2016 vedeva, poi, due grandi novità: il debutto di Cecilia Bartoli, legatissima a Fasolis e a Lugano, e la “prima volta” della nuova sala, il LAC, che sostituiva il sordo palazzo dei congressi. Ma andiamo con ordine, nella recensione dei 5 concerti cui ho assistito.
BACH Concerto brandeburghese n. 3 in sol magg. BWV 1048 trascritto da Max Reger per pianoforte a quattro mani Gurning, Mogilevsky BUSONI Fantasia contrappuntistica per due pianoforti Buratto, Coria Improvisation über Bachs Chorallied “Wie wohl ist mir, o Freund der Seele”per due pianoforti Marton, Kuroiwa BACH Concerto brandeburghese n. 5 in re magg. BWV 1050 trascritto da Max Reger per pianoforte a quattro mani Marton, Hubert
Teatro Sociale, Bellinzona, 7 giugno
La prima serata del PMA 2016 inizia nel segno del ritorno a Bach, ossia di due modi con cui nel primo Novecento si guardava al compositore tedesco. Sono stati proposti due dei sei Concerti brandeburghesi nella versione per pianoforte a 4 mani di Max Reger: una trascrizione realizzata nel 1907 su richiesta dell’editore Peters e che ha, o per meglio dire aveva, una destinazione amatoriale, per quell’Hausmusizieren che nella borghesia tedesca era pratica quotidiana. Sono trascrizioni, quindi, ben fatte ma semplificatrici, che inevitabilmente impoveriscono l’originale, senza rivelarne alcun aspetto particolare: forse anche per questo motivo le due coppie che hanno eseguito il Terzo e il Quinto non hanno suscitato entusiasmo. Molto meglio, in ogni caso, Cristina Marton e Eduardo Hubert, che hanno ben realizzato la famosa cadenza del Quinto brandeburghese, qui distribuita fra le 4 mani. L’altro sguardo su Bach era quello, molto più singolare e visionario, del toscano berlinese Ferruccio Busoni: particolarmente interessante è stata la proposta della grande Fantasia Contrappuntistica, nata nella mente del suo autore come proposta di completamento dell’Arte della fuga di Bach ma ben presto andata ben oltre. Un lavoro che, come scrive Piero Rattalino, è studiato più spesso di quanto sia ascoltato e più discusso di quanto sia suonato: da lodare, quindi, l’impegno del duo formato dal giovane italiano Luca Buratto e dall’altrettanto giovane argentino Elio Coria, che hanno puntato tutto sull’estrema chiarezza del contrappunto, anche rinunciando a uno scavo timbrico e di fraseggio particolare. Infine, un’altra pagina di Busoni, ossia l’Improvvisazione sul corale di Bach “Wie wohl ist mir, O Freund der Seelen”, un altro saggio del camaleontismo di questo intellettualissimo musicista, che riscrive in questa affascinante pagina il finale della seconda sonata per violino e pianoforte: molto equilibrati, qui, Cristina Marton e il giapponese Haruka Kuroiwa. Un concerto, insomma, non entusiasmante sul versante esecutivo ma certamente curioso quanto a proposta musicale, e che dà il via alla consueta, ricchissima parata di artisti e concerti.
CHOPIN Concerto per pianoforte n. 1 in mi min. op. 11 Leschenko BUSONI Concerto per violino in re magg. op. 35 R. Capuçon SZPILMAN Concertino per pianoforte Sakai RAVEL Concerto in sol Argerich LALO Concerto per violoncello in re min. M. Maisky Orchestra della Svizzera italiana, direttore Alexander Vedernikov
LAC, Lugano, 10 giugno
Forse la vera inaugurazione di questo Progetto Martha Argerich è stata questa serata, con uno degli ormai proverbiali concerti happening, lunghissime e irripetibili occasioni in cui si accostano solisti sommi ad altri meno noti, pagine conosciute da tutti a vere rarità. L’attesa era tutta per il Concerto in Sol di Ravel che Martha Argerich riproponeva per l’ennesima volta, essendo questo uno dei suoi più memorabili cavalli di battaglia: e se ci si poteva attendere di riascoltare la poesia trattenuta, intensa, il suono curatissimo del celebre adagio, era meno scontato che l’agilità, lo scatto nervoso, la brillantezza, la facilità digitale fossero ancora quelli di una volta. Si potrebbe definire un miracolo, quanto sentito da Martha ieri sera, se non che in musica i miracoli non esistono e tutto si deve al talento, certo, ma soprattutto all’esercizio costante, alla fatica, al sacrificio. Altro non vale la pena di dire: l’emozione è stata tale che si è dovuto ripetere per intero il finale del concerto. Prima, alti e bassi: Renaud Capuçon ha offerto una lettura brillantissima, di grande virtuosismo, addirittura funambolica del bel Concerto di Busoni, affrontato secondo un’ottica tardoromantica, mentre Akane Sakai ha proposto una curiosità, il Concertino di Szpilman, che ha ispirato il celebre film di Polanski “Il pianista”: peccato che per rendere l’enfasi quasi hollywoodiana della pagina ci volesse tutt’altro tipo di pianismo e di personalità. Polina Leschenko, quindi, ha suonato il Primo di Chopin, e l’ha fatto certamente bene, con una tecnica che porta l’impronta della scuola russa, sia nel bene, ossia l’esattezza di tutti i passi più difficili, sia nel male, ossia una certa inclinazione alla retorica espressiva. E poi una vera rarità come il Concerto per violoncello di Lalo: una pagina piuttosto brutta, specie nei due movimenti esterni, in cui Mischa Maisky ha fatto il possibile per esaltare quanto di interessante rimaneva, con la sua cavata larga e teatrale, il suo cantabile che sa nascondere le imprecisioni esecutive con molta scaltrezza. E, come spesso in queste occasioni, l’ingrato compito di accompagnare ben cinque concerti è stato assolto da Alexander Vedernikov, che a me però pare sempre troppo enfatico e generico.
MOZART Sonata in mi min. K 304 Baranov, Kovacevich FAURÉ Quintetto in do min. op. 115 Gurning, Schwarzberg, A. Margulis, Romanoff, Zhao PROKOFIEV Valzer di Schubert (trascritti per due pianoforti) Gabriele Baldocci, Akane Sakai RAVEL Gaspard de la nuit Argerich La valse K. Buniatishvili, G. Buniatishvili
Auditorio Stelio Molo, Lugano, 17 giugno
C’erano in teoria tanti motivi per assistere al concerto di ieri sera, ma alla fin fine la ragione vera era una sola: assistere al ritorno di Martha Argerich al concertismo solista dopo tantissimi anni. Certo, non si trattava di una serata intera ma di una sola composizione: però la composizione in questione era una di quelle che si giocano l’ipotetico empireo della massima difficoltà tecnica ed espressiva, il Gaspard de la Nuit di Ravel. Una prova che ha del miracoloso: Martha, sempre fedele a se stessa, mantiene tutte le libertà ritmiche ma soprattutto dinamiche che già si prendeva negli anni ’70, con uno scintillio tecnico praticamente immutato. Credo che nessun pianista, neppure nel passato, a 75 anni si potesse permettere tanto: e se la pianista è ancora un fenomeno che suscita ammirazione, vero stupore lo desta l’artista, capace ad esempio di colorare in maniera sempre nuova quel si bemolle che in Le Gibet, secondo pannello del Gaspard, è ripetuto 258 volte, per la gioia degli statistici. Alle tre parti del Gaspard era premessa la lettura delle poesie di Bertand che hanno ispirato la composizione: l’onore è toccato ad Annie Dutoit, seconda figlia di Martha, cui saremo grati per avere convinto la madre a riprendere questo spartito. Inutile poi dilungarsi troppo sul resto: detto della scipita e modesta esecuzione della K 304 di Mozart da parte di Baranov e Kovacevich (sembrava un leccatissimo Mozart di cinquant’anni fa, senza ritornelli, senza dinamiche, senza niente), di un’esecuzione del prolisso Secondo Quartetto di Fauré che non è andata oltre un’onesta lettura, una vera chicca è stata la suite di Valzer di Schubert assemblata da Prokofiev, su suggerimento di Stravinski, e qui presentata nella versione del 1923 per due pianoforti. Solisti erano i bravi Gabriele Baldocci e Akane Sakai. Dopo la lunga standing ovation per la Argerich, la serata è stata chiusa da un altro Ravel, La Valse, affidato alle belle e vistose sorelle Buniatishvili. Fatta salva una libertà esecutiva che sfiorava l’arbitrio, e troppe note liberamente omesse, non si può dire certo che abbiano suonato male: ma il senso di un mondo che si getta inconsapevole verso la catastrofe della Prima guerra mondiale (il brano è del 1919), stordendosi fra le spire del valzer e trascinando con se un’intera civiltà, nell’esecuzione delle due sorelle georgiane era drammaticamente assente. Ma il Gaspard di Martha bastava e avanzava.
DOHNÁNYI Quintetto in do min. op. 1 Zilberstein, Schwarzberg, A. Margulis, Chen, Dindo SCHUBERT “Da qual sembiante”, D 688C, testo di Metastasio; “Mio ben ricordati”, D 688D, idem; “Vedi quanto adoro”, D 510A, idem ROSSINI La passeggiata (“Or che di fiori adorno”); L’Orpheline du Tyrol (“Seule, une pauvre enfant”), testo di Emilien Pacini; La danza (“Già la luna in mezzo al mare”) Bartoli, Argerich SCHUBERT Sonata in la min. (“Arpeggione”) Romanoff, Mogilevsky NOWAKOWSKI Quintetto in mi bem. magg. op. 17 Goerner, Jakowicz, Budnik-Gałązka, Zdunik, Rozlach
LAC, Lugano, 26 giugno
Forse scopro l’acqua calda se ribadisco qual è il senso, il segreto della musica da camera: in questo repertorio tutto si gioca sull’intesa fra i musicisti, tanto che l’abilità individuale conta sì ma relativamente. Il totale, insomma, può essere maggiore o minore della somma degli addendi. Mi spiego: se prendiamo il Quintetto di Nowakowski, compositore oggi quasi sconosciuto, amico e compatriota di Chopin, al di là del pianista, l’ottimo Nelson Goerner, i nomi degli altri quattro musicisti polacchi sono ben poco noti. Ma i rapporti sonori, gli equilibri, la naturalezza del fraseggio, il respirare assieme che costoro mostravano sono qualcosa che non si può improvvisare: e infatti se ne sentiva un po’ la mancanza nell’altro Quintetto in programma, quello di Dohnányi, nonostante le prestigiose presenze di artisti come la Zilberstein e Dindo. Certo, qui si scontava anche il problema del primo violino, perché Dora Schwarzberg ha ormai chiari problemi di tenuta e intonazione: il risultato, insomma, era inferiore a quanto ci si poteva aspettare. E lo stesso discorso vale per le due coppie, per così dire: Martha Argerich è la gigantesca artista che tutti sappiamo, che pochi giorni prima ci ha regalato un Gaspard da gridare al miracolo. Ma non ha mai accompagnato un cantante, e la tensione che le costa è evidente, tanto che si avverte qualche sbavatura in brani tecnicamente elementari come quelli di Schubert; poi, Cecilia Bartoli è bravissima, ma l’incontro tra due universi così distanti non può avvenire di colpo, per grazia divina. Poi, è ovvio, Martha non è Martha per niente, e sfodera qualche zampata fenomenale: ma non è e non sarà mai un’accompagnatrice di cantanti. Su un piano opposto agiva il duo formato da Alexander Mogilevsky e Nora Romanoff, che hanno suonato l’Arpeggione di Schubert nella versione per viola: la Romanoff non è certo una virtuosa, e un po’ più di brillantezza strumentale non guasterebbe, ma con il collega stabilisce un’intesa vera, così che il loro Arpeggione è vario, malinconico, intenso, musicalmente impeccabile. Una serata che ci ha fatto scoprire questo raro brano di Nowakowski, che evidentemente è influenzato sia dal Quintetto Die Forelle di Schubert, che ha il medesimo organico con il contrabbasso al posto del secondo violino, e che era stato pubblicato solo 4 anni prima, nel 1829, sia da quel gusto Biedermeier che allora dominava e da cui anche lo stesso Chopin partì. Il problema è che Nowakowski a quello si fermò…
MOZART Sonata in re magg. K 448 Argerich, Babayan SAINT-SAËNS Settimino in mi bem. magg. op. 65 Kapelis, Sommerhalder, S. Maisky, Kishima, Chen, M. Maisky, Fagone SAINT-SAËNS “Mon coeur s’ouvre à ta voix”, da Samson et Dalila DEBUSSY Minstrels PIAZZOLLA Grand Tango M. Maisky, L. Maisky WEBER Quartetto in si bem. magg. J. 76 Lim, Kishima, Chen, Drobinsky HUBERT Amoreango NISINMAN Hombre Tango PIAZZOLLA Kicho Ensemble ReEncuentros: Hubert, Nisinman, Martynov, Chen, Bosso, Fagone
Auditorio Stelio Molo, Lugano, 30 giugno
Ed eccoci arrivata all’ultima serata del PMA 2016; ma, almeno stando a quanto comunicato, probabilmente anche l’ultima in assoluto, se gli appelli rivolti da più parti (anche dal pianista Eduardo Hubert, che ha preso la parola prima di suonare) non avranno effetto. Forse per caso, forse no, è stata una serata molto significativa, quasi riassuntiva di talune caratteristiche che hanno segnato, specie in questi ultimi anni, che conosco meglio, il festival. Un concerto lunghissimo, quasi smisurato, di tre ore: un programma apparentemente senza filo conduttore, che passava da Mozart a Weber, da Saint-Saëns al tango, fra pagine ben note, come la Sonata per due pianoforti di Mozart, a rarità squisite, come il Settimino con tromba di Saint-Saëns e il Quartetto con pianoforte di Weber. Musica di oltre due secoli fa, e prime assolute, come l’Amoreango di Eduardo Hubert, pagine originali e le trascrizioni che Maisky ama proporre da opere liriche, in questo caso l’aria di Dalila dal Sansone. E poi, naturalmente, lei, la grande Martha, stavolta alle prese con Mozart, autore verso cui ha nutrito sempre una certa diffidenza, e che difatti si traduce in un’esecuzione, assieme a Babayan, elegante ma prudente, circospetta, quasi priva della sfrontata teatralità di questa sonata. Né l’intesa con il partner sembrava esaltante, al contrario di quanto accade, ad esempio con Barenboim: anche la loro visione di Mozart è distante, persino a livello testuale, perché lui abbellisce e varia il secondo movimento, lei rimane fedele alla lettera. E poi, come quasi sempre in questi 15 anni di progetto, il contorno dei tanti amici, con esecuzioni dal livello ovviamente variabile: il brano di Saint-Saëns ha sofferto la presenza di un pianista piuttosto arruffone, Alexandros Kapelis, e di un Sommerhalder alla tromba molto sottotono, mentre il frizzante Quartetto di Weber ha trovato interpreti molto, forse troppo entusiasti, ma capaci di renderne le suggestioni post-classiche. Il finale, come accennato, era all’insegna del tango, forse in omaggio alla patria della Argerich: e le bellissime esecuzioni si sono caricate di nostalgia e di malinconia, nella speranza che l’ultima nota sia stata un arrivederci e non un addio.
Nicola Cattò