BOITO Nerone M. Sheshaberidze / K. Kipiani, F. Vassallo / A. Rosalen, R. Frontali / L. Kim, V. Boi / R. Stanisci, D. Uzun / M. Marini, D. Kim / A. Abis, V. Solodkyy; Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari, direttore Francesco Cilluffo regia Fabio Ceresa scene Tiziano Santi costumi Claudia Pernigotti
Teatro Lirico di Cagliari, 16 e 17 febbraio 2024
Prosegue la benemerita tradizione del Lirico di Cagliari di inaugurare la propria stagione con un titolo di rarissima esecuzione, e anche quella — che ha caratterizzato gli ultimi anni — di concentrare la scelta nel repertorio italiano del primo ‘900: e quindi dopo Cecilia di Refice, Palla de’ Mozzi di Marinuzzi e Gloria di Cilea (per citare solo gli ultimi titoli, di cui ho puntualmente riferito su MUSICA), ecco un’opera la cui ultima proposta italiana risale al 1975 (Rai di Torino, direttore Gavazzeni) in forma concertistica, e addirittura al 1957 (San Carlo di Napoli, direttore Capuana) in quella scenica. E, tolta una bruttissima esecuzione a Bregenz del 2021, all’estero il silenzio è stato di pari durata.
Come spiega Gerardo Guccini in un illuminante saggio, quello del Nerone di Boito è un caso di incompiutezza consustanziale alla natura dell’opera stessa: Boito, forse, non avrebbe mai potuto terminarla, nonostante ci abbia lavorato per un lunghissimo lasso di tempo, ossia dagli anni Sessanta, dall’epoca del Mefistofele, fino alla sua morte, nel 1918. Il libretto completo, in cinque atti, era stato pubblicato nel 1901, poco dopo la morte di Verdi, il quale aveva fatto in tempo a leggerlo e ad apprezzarlo molto (Boito gli aveva letto la tragedia già nel 1891); ma in una forma «non del tutto conforme a quello destinato alla rappresentazione scenica», come si legge nell’introduzione. E la partitura autografa, che termina alla fine del quarto atto, datata 12 ottobre 1916, porta la firma di “Arrigo Boito e Kronos”, il tempo: una sorta di dichiarazione di rinuncia al quinto atto, quello però fondamentale per la natura così sperimentale dell’opera, in cui l’accostamento dei matricidi Nerone-Oreste diventa così esplicito che il primo incarna il secondo, recitando con la cetra perseguitato dalle Erinni, mentre l’Urbe brucia. Alla base di questo libretto, e della partitura, c’è una quantità abnorme di materiale preparatorio: letture di ogni tipo, annotazioni, carte che investono ogni aspetto dello scibile umano («architettura, poesia, musica, abbigliamento, acconciature, mezzi di trasporto, riti, usanze, superstizioni, lingua, religioni», scrive Emanuele D’Angelo nel bel saggio contenuto nel programma di sala), oltre che la creazione di un linguaggio musicale e armonico che si basa sulla corrispondenza di suoni e colori (un po’ alla Skrjabin), e di accordi che, almeno in teoria, vorrebbero allargare il sistema tonale. Poi, all’ascolto, tutto ciò appare velleitario: ci sono molte influenze, citazioni evidenti (da Verdi e Wagner, fino al sinfonismo tedesco e nordico), ma per il resto nulla di così estremo. Anche perché — e qui giunge un problema non da poco — quello che oggi si può eseguire non è il Nerone di Boito: in attesa di un’edizione critica, o almeno di una performing edition (che è effettivamente in preparazione) che permetta di suonare quanto Boito ha scritto, ossia i primi quattro atti in forma quasi completa (e non, come si dice sempre, mancante dell’orchestrazione in ampie parti: devo questa informazione a Emilio Sala, che la ribadisce nel programma), oggi dobbiamo utilizzare la versione che Toscanini, in vista della prima scaligera del 1924, ha affidato a Tommasini e Smareglia, che sono intervenuti anche sulle parti già completate da Boito, forse per un desiderio “normalizzativo”. Ma «di fatto, chi intendesse oggi realizzare una partitura ‘de-toscaninizzata’ del Nerone di Boito potrebbe farlo semplicemente trascrivendo l’autografo conservato a Parma», quello dei primi quattro atti: e c’è anche una parte del quinto, in particella, «dall’alzarsi del sipario fino a buona parte della scena di Oreste con le Eumenidi» (Sala). Il che conferma la volontà, almeno in linea di principio, da parte di Boito di musicare anche il quinto atto: terminare con la morte di Rubria nello spoliarium pare suggestivo, ma nella sua natura tradizionalmente melodrammatica genera, come dicevo prima, un ribaltamento drammaturgico profondamente travisante.
L’opera, in ogni caso, vince la prova del palcoscenico, anche grazie allo sbalzo efficace dei personaggi: l’intensità lirica delle parti dedicata a Fanuèl e Rubria, l’intensità drammatica di Asteria, il delirio folle di Nerone, la torva e quasi grottesca grandiosità di Simon Mago sono benissimo risaltate in questa produzione cagliaritana, che è stata programmata come davvero meglio non si poteva. Partendo dal “manico”, ossia dalla bacchetta di Francesco Cilluffo: come Donato Renzetti e Giuseppe Grazioli — che l’hanno preceduto in questa serie di riscoperte del ‘900 italiano — il direttore torinese conosce benissimo e ama questa musica, ed è capace di esaltarne i pregi e occultarne talune magagne, con un dominio che è insieme tecnico e, come dire, “spirituale”. L’ampia orchestra, che è arricchita da una decina di strumenti fuori scena (trombe, tube wagneriane, oboi…) è impegnata allo spasimo nel rendere sia la “tinta” delle varie scene (il Circo Massimo, l’orto dei cristiani, lo spoliario), sia la dimensione retorica del teatro boitiano, nel suo impasto unico di descrittivismo ed evocazione simbolica. Ecco quindi una scelta dei tempi che è del tutto elastica, e calibrata sulle esigenze dei diversi cantanti, una gamma timbrica suggestiva, e un’assenza di eccessi dinamici o agogici, che pure costituiscono un rischio evidente della partitura: particolarmente esaltanti mi sono parsi il dominio dell’ampia scena del Circo, piena di episodi a rischio divagazione, e il finale, dove Cilluffo ha staccato un tempo non eccessivamente indugiante (come faceva Gavazzeni, ad esempio), e con un tactus sensibilmente diverso a seconda del baritono che c’era in scena. Già, perché, come d’abitudine, Cagliari propone due diversi cast che si alternano per circa dieci giorni, al ritmo di una recita a sera, o quasi: e ancora una volta la direzione artistica ha dato prova di grande competenza e buon senso. Perché, tanto per fare confronti, se la Scala non sa trovare un basso dignitoso per un ruolo mitico come Fiesco in un’opera di repertorio come il Boccanegra, il Lirico isolano ne individua ben due, tra loro molto diversi eppure entrambi eccellenti per Simon Mago, la cui spinosissima tessitura di vero basso che però insiste spesso in acuto è ben più rischiosa: da una parte abbiamo sentito un baritono scuro come Franco Vassallo, che mai ho ascoltato così bravo, partecipe, istrionico nel fraseggio, incisivo su due ottave di canto perfettamente omogeneo, e dall’altra Abramo Rosalen, un basso quasi profondo che però sale senza problemi, e capace di rendere un personaggio magari meno istrionico ma altrettanto compiuto, dall’impressionante potenza scenica. Valentina Boi era un’Asteria di potentissima dimensione drammatica, la sua voce cuprea salendo con facilità anche nella difficile frase del secondo atto coronata da ben due Do acuti, e con un’intensità che si ricorderà a lungo: splendido, poi, il contrasto con la Rubria di Deniz Uzun, una vera scoperta mediosopranile dal colore che ricorda la Simionato, affascinante per la morbidezza e l’intensità del suo canto. Al loro confronto, non sfiguravano, nel secondo cast, anche Rachele Stanisci e Mariangela Marini: ma certamente un gradino sotto. Anche per il personaggio di Fanuèl, destinato a una vocalità baritonale “alla Battistini”, si sono sentite due voci diversissime: nel primo cast Roberto Frontali, un po’ consunto in acuto ma capace di accentare e creare un personaggio ben più compiuto di quanto abbia fatto nel secondo Leon Kim, la cui linea era però davvero ammirevole a livello tecnico. Al contrario, il secondo cast vinceva nettamente sul primo per quanto riguarda Nerone: Mikheil Sheshaberidze era insopportabilmente legnoso nella voce e nullo nel fraseggio mentre Konstantin Kipiani, pur non eccellendo, tentava più spesso di rendere credibile il personaggio dell’Imperatore folle, con una vocalità dal generoso squillo e una dizione nitida. Ma le lodi devono proseguire anche per il resto del fitto cast: Tigellino era reso credibile sia da Dongho Kim che da Alessandro Abis, e Vassily Solodkyy spiccava come Gobrias nella prima parte del quarto atto.
Se l’eccellenza musicale è stata una costante delle inaugurazioni cagliaritane di questi ultimi anni, la parte visiva ha invece viaggiato tra alti e bassi: più i secondi dei primi, a dire il vero. Fabio Ceresa certamente non poteva seguire in tutto le infinite descrizioni visive che Boito dissemina nel libretto (e ci sarebbe poi voluto un budget impensabile!), ma ha deciso di ambientare l’opera tra età neroniana e Ventennio fascista, in un’ambivalenza generalmente funzionale ma che mancava di dare risalto ad alcuni snodi-chiave della drammaturgia, come l’apparizione e poi distruzione della “macchina” nella scena del tempio di Simon Mago. E anche il gran momento del Circo Massimo (qui caratterizzato dal Colosseo quadrato dell’Eur) mi è apparso un po’ semplicistico. Ma va detto che Ceresa ha saputo comunque assecondare una drammaturgia così complessa, e ha individuato benissimo, facendo riapparire negli ultimi istanti Nerone che sgozza Terpnos, l’efebo muto che lo aveva quasi sempre accompagnato, il “problema” del quinto atto, evitando così il tradimento melodrammatico della conclusione con la morte di Rubria.
Grande successo a entrambe le recite, in attesa dell’annuncio del titolo di apertura 2025, per cui si annunciano già idee succulente…
Nicola Cattò
Foto: Priamo Tolu