ROSSINI La gazza ladra R. Feola, P. Bordogna, E. Rocha, T. Iervolino, A. Esposito, M. Pertusi, S. Malfi, M. Macchioni, M. Mezzaro, C. Levantino, G. Romeo, F. Alberti; Marionette della Compagnia Marionettistica “Carlo Colla & Figli”; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Gabriele Salvatores scene e costumi Gian Maurizio Fercioni
Questa Gazza ladra rappresentava, per la Scala, uno degli spettacoli di punta dell’attuale stagione, e tutto sembrava essere stato preparato nel migliore dei modi: il direttore musicale, già esperto rossiniano, sul podio, un cast di eccellenti nomi (e quasi interamente italiani) dall’acclarato pedigree rossiniano in scena, la regia di un uomo intelligente e acuto come Gabriele Salvatores. Eppure, qualcosa è andato storto e, va detto con molta chiarezza, la delusione maggiore viene secondo me dalla direzione di Riccardo Chailly: pur condannando con la massima fermezza le belluine, volgari proteste che hanno funestato la “prima” (la presenza di minus habentes che cercano uno sfogo alle proprie frustrazioni fischiando e ululando è, alla Scala, un problema ormai serio), fin dalla celeberrima Sinfonia emergevano dubbi sulle scelte del Maestro milanese. Oltre ad ignorare le indicazioni dinamiche apposte ai primi due rulli di tamburo (invece di f e p, ascoltavamo due f, come ha rilevato in altra sede Luca Ciammarughi), la scansione ritmica appariva implacabile, il suono senza luce, impastato, povero di articolazione interna; mancava il gioco di richiami interni, l’eleganza del porgere la frase musicale, sostituita da un’energia piuttosto brutale e, alla fine, di dubbio effetto drammatico. Che si trattasse di una precisa scelta interpretativa, e non certo di superficialità esecutiva, lo confermava l’inizio dell’opera: i tratti più comici del “melodramma semiserio” erano quelli che più pativano questo giogo imposto sul collo dei cantanti e, al contrario, l’aumentare della temperatura drammatica rendeva giustizia alla concertazione di Chailly. Ecco quindi che il secondo atto, specialmente la scena del tribunale, avevano uno spessore tragico davvero inusitato: che poi spingere così “in avanti” la marcia funebre, con un suono così strascinato (a prescindere dai vistosi scollamenti tra orchestra e coro) sia stato stilisticamente inappuntabile, beh, questo è un altro discorso. Chailly non tornava a Rossini da molti anni in teatro, addirittura (ma posso sbagliarmi), dal Turco scaligero di vent’anni fa, che ricordo non memorabile come direzione (il disco, viceversa, è bellissimo): trovo, insomma, che non sia — e forse non sia mai stato — l’autore più adatto a lui, come prova anche una palese diffidenza verso tutto l’apparato di cadenze e variazioni che sono stati concessi ai cantanti in misura davvero minima. Ben altra libertà si avvertiva, sia in questo ambito che per ariosità della concertazione, nella lettura del compianto Zedda, autore dell’edizione critica dell’opera e a cui la prima recita di questo ciclo è stata dedicata.
Come spesso accade con i grandi registi cinematografici alle prese con l’opera, Salvatores si mostra fin troppo prudente: una scena più o meno fissa, sul fondo un muro con un portone, sulla destra un edificio con finestre che diventa di volta in volta carcere, tribunale o casa di cortile, una onnipresente (e piuttosto insopportabile: è stata persino fischiata) gazza-acrobata, le pur gradevoli marionette dei Colla che intervengono senza stabilire un vero legame drammaturgico con i personaggi, e vari spunti che danno sempre la sensazione di rimanere al livello di abbozzo, dalla gabbia che si compone su Ninetta e il Podestà alla finale proiezione del nero uccello che viene salutato da tutti i personaggi. Insomma, uno spettacolo gradevole ma inoffensivo: il confronto con la geniale, “onirica” creazione di Damiano Michieletto che tanto ha girato negli ultimi anni (io stesso ne scrissi sul n. 237 di MUSICA, dopo una recita al Filarmonico di Verona) non si pone neanche.
Anche vocalmente non si è ascoltato nulla di esaltante, pur rimanendo nell’ambito dell’alta professionalità; la migliore mi è parsa Rosa Feola, precisa e omogenea nell’emissione, pur con un’evidente prudenza nella coloratura, ma anche toccante nel tratteggio del personaggio, mentre Alex Esposito, dopo un inizio periclitante nell’intonazione ha conferito al suo personaggio l’efficacia di una voce brunita e di una coloratura di bella esattezza. Le nasalità di Edgardo Rocha riportano indietro di qualche decennio l’orologio del tenore rossiniano, mentre i due mezzi — Teresa Iervolino e Serena Malfi — hanno dato, pur senza esaltare, adeguato rilievo alle parti di Lucia e Pippo. Detto che Paolo Bordogna ha vissuto serate molto migliori di questa, e che Matteo Macchioni è un gradevolissimo Isacco, resta Michele Pertusi: impossibile non ammirare la classe intatta del sommo artista (basti ascoltare, nel finale primo, il modo quattro volte diverso con cui ripete la frase, nel finale primo, “vuol dir lo stesso), lo stile esatto del grande rossiniano, la naturalezza dei recitativi; ma onestà vuole che si sottolinei come la coloratura non abbia più l’esattezza di qualche anno fa e come, nella grande aria del secondo atto, la fatica sia palese. Serata dall’esito di pubblico piuttosto freddo: un’occasione, complessivamente, mancata.
Nicola Cattò
© Brescia & Amisano, Teatro alla Scala