PUCCINI Madama Butterfly M.T. Leva, R. Lupinacci, S. Pop, S. Antonucci, D. Pieri, J. P Huckle, M. Leung, C. Ottino; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Giuseppe Acquaviva regia Lorenzo Amato scene Ezio Frigerio costumi Franca Squarciapino
Genova, Teatro Carlo Felice, 16 giugno 2019
La «casa a soffietto» comprata da Pinkerton «per novecentonovantanove anni» ha in realtà le dimensioni di un palazzo: è una sorta di palafitta sospesa sul palcoscenico allagato (che offre all’occorrenza suggestivi riflessi luminosi), e sul fondo, quando le enormi porte scorrevoli vengono aperte, lascia spaziare lo sguardo sulla sommità della collina sopra Nagasaki, ma anche su una grande notte stellata per il finale del primo atto, e addirittura sui grattacieli americani fantasticati da Cio-Cio-San durante la veglia notturna, in attesa del ritorno di Pinkerton. La soluzione creata nel 2016 da Ezio Frigerio, Lorenzo Amato e Franca Squarciapino per il teatro di Astana (col quale il Carlo Felice ha da qualche anno una fertile collaborazione), perfettamente adattata al palcoscenico genovese, offre uno scenario decorativamente assai apprezzabile, funzionale alla vicenda, anche se non regala alle apparizioni in scena di Butterfly e dello Zio Bonzo l’impatto che la musica richiederebbe. Si è trattato comunque di un allestimento sostanzialmente tradizionale (del resto nella capitale kazaka Madama Butterfly si rappresentava in quell’occasione per la prima volta!), che si è tenuto equidistante tra il rischio dell’oleografia risaputa e quello opposto della «trovata» a tutti i costi, illuminato a tratti da effetti poetici, come le lanterne galleggianti che scorrono sull’Andante sostenuto «Dolce notte! Quante stelle!».
Dal punto di vista musicale, l’interpretazione è stata illuminata da una protagonista di notevole livello. Dotata di una voce non grande ma molto gradevole, soprattutto nei centri, Maria Teresa Leva ha saputo restituire pienamente l’evoluzione del personaggio: nel primo atto Butterfly appare ancora permeabile alle manipolazioni di Goro (che in questa visione registica mette in scena una vera «rappresentazione» matrimoniale per incantare Pinkerton), dimostrando un’immaturità concretizzata in una gestualità un po’ troppo enfatica, che purtroppo pregiudica un poco l’incanto complessivo del grande duetto d’amore, nonostante momenti assai riusciti, come un «Vogliatemi bene» tutto sulle mezze tinte; nel secondo atto, dove Cio-Cio-San veste abiti occidentali, il soprano calabrese appare libero di trasmetterne intensamente illusioni e disillusioni, modellando con sensibilità «Un bel dì, vedremo», ma soprattutto permeando di autentica sincerità espressiva tutta la sua interpretazione, da una scena della lettera priva di bamboleggiamenti a un commovente Andante molto mosso (significativamente irto di bemolli in chiave) «Che tua madre dovrà prenderti in braccio»; fino alla disperazione del terzo atto, culminante forse in un «Voglion prendermi tutto!» davvero toccante.
Al suo fianco, Stefan Pop ha presentato un Pinkerton meno definito (del resto si tratta del primo approccio del tenore rumeno al personaggio): nel primo atto si notano alcune sfumature interessanti nella direzione di un carattere agito dalle proprie pulsioni, come un «d’ogni bella gli amor» pianissimo e rapito, o un «Con quel fare di bambola» molto diretto; ma in generale il grande duetto manca di rapinosità, e la voce, pur ampia e impreziosita da una bella dizione, diventa davvero luminosa soltanto sopra il rigo. Se Stefano Antonucci incarnava un Console grigio, vocalmente privo di morbidezza, una Suzuki di buona statura è stata invece Raffaella Lupinacci, pienamente empatica con la protagonista ma guidata da una certa fierezza nei confronti di Pinkerton; Marta Leung era una Lady Pinkerton lontana e scostante, mentre Didier Pieri ha proposto un Goro piuttosto originale: un wedding planner preparato e professionale, meno viscido dell’usato, ma eloquente, anche grazie a una vocalità ben proiettata.
Giuseppe Acquaviva, direttore artistico del Carlo Felice, ha articolato la partitura con sicurezza, forse tenendo a tratti i volumi orchestrali un po’ troppo sostenuti, a scapito delle voci meno potenti; la direzione ha avuto comunque buoni momenti, come lo stacco davvero sensuale delle battute orchestrali che precedono «Quest’obi pomposa» nel duetto d’amore. Le masse artistiche del teatro hanno risposto con la consueta efficienza, dimostrando di meritare l’affetto che alcuni spettatori ripetutamente hanno dichiarato loro durante lo spettacolo, sempre approvati dagli applausi calorosi del pubblico.
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli