BEETHOVEN Concerto per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore n. 2 op. 19 BERLIOZ Sinfonia fantastica op. 14 pianoforte Martha Argerich Israel Philharmonic Orchestra, direttore Zubin Mehta
Milano, Teatro alla Scala, 3 settembre 2019
L’inizio di Mito vuol dire, per il pubblico milanese (e torinese, ovviamente: ma noi ci rapportiamo meglio con la Madunina…) il ritorno alla Scala, la fine delle vacanze, il segnale di partenza di una nuova stagione musicale: insomma, suona la campanella degli appassionati di musica. Una festa, quindi, e si sa che le feste migliori sono quelle con gli amici più cari, di più vecchia data: e chi, allora, meglio di Zubin Mehta e Martha Argerich? Il primo ha superato con tenacia e coraggio una terribile malattia, e lo vediamo arrivare con un bastone, a passo incerto, fino a quel podio dove dirigerà seduto; Martha, invece, a 78 anni sembra l’eterna ragazzina che si affaccia sul palcoscenico quasi fosse capitata lì per caso, imbarazzata dagli applausi e un po’ insofferente delle eterne ritualità fatte di inchini, uscite, entrate, bis. Insieme, Zubin e Martha, iniziano col Secondo di Beethoven, il concerto che si suole indicare come il più “mozartiano” del compositore di Bonn: e fin dalle prime note della Israel Philharmonic (un’orchestra di livello buono, ma certo non eccelso) ci pare di sentire un Mozart vecchio stile, ma nel senso migliore, con le sue sonorità levigate, i suoi tempi sempre ragionevoli, una concertazione chiara ma mai esasperata nel dettaglio, e quell’immediata intesa con la solista che è frutto, insieme, di talento, esperienza e comune sentire umano e artistico. Sublime, la Argerich: non ci sono altre parole per definire un’esecuzione digitalmente impeccabile, raffinatissima, sfumata e tutta giocata tra il pianissimo e il mezzoforte, con una semplicità che è altro non è che l’arte di celare l’artificio propria dei grandissimi. Non è solo la freschezza, consueta, delle letture della pianista argentina: è una specie di sublimazione di una vita dedicata alla musica, in cui l’aspetto razionale del fraseggio, che alla Argerich è sempre interessato poco, viene alla luce con naturalezza e chiarezza estreme. E se non fosse stato per qualche sbavatura negli attacchi dell’orchestra, si sarebbe potuto parlare di lettura a suo modo definitiva. E per rimanere nella sua sublime comfort zone, il bis è consistito nella consueta Sonata K 141 di Scarlatti, nella quale il miracolo di un ribattuto di purezza cembalistica ha confermato che l’unicità di Martha Argerich è qualcosa, davvero, di non totalmente spiegabile.
Meno esaltante, invece, la Fantastica proposta nella seconda parte, in cui Mehta sembrava in imbarazzo di fronte alla dimensione grottesca, formalmente bizzarra, deviante della partitura: non a caso i momenti più riusciti mi sono parsi il secondo movimento, quel ballo di elegantissima movenza valzeristica, e la fuga finale, netta e implacabile (ma il sovrapporsi del Tema del Sabba e del Dies Irae veniva affogato dal predominare di tube e tromboni). E pure la scelta, da Mehta sempre praticata, della lezione con la cornetta solista nel secondo movimento non era poi supportata da una concertazione che la mettesse in dovuta evidenza. Una Fantastica, insomma, piacevole ma un po’ rigida e pesante, esattamente come il bis straussiano (Unter Donner und Blitz) concesso a un pubblico giustamente festante, che ha salutato con il dovuto affetto l’amico risanato.
Nicola Cattò