BEETHOVEN Concerto n. 1 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 15 ČAJKOVSKIJ Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 pianoforte Martha Argerich Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, direttore Fabio Luisi
Torino, Auditorium Rai “Arturo Toscanini”, 26 ottobre 2023
L’attesa per il ritorno di Martha Argerich sul palco dell’auditorium Rai è stata tanta. Quando vi ha finalmente fatto la sua comparsa, la pianista argentina si è mostrata al pubblico sorridente, con il consueto atteggiamento disteso, circondata naturalmente da grandissimo rispetto, trattandosi pur sempre di una tra le più importanti interpreti a cavallo tra il XX ed il XXI secolo. La tanto attesa serata inaugurale della stagione dell’OSNRai 2023/24 debutta con il Primo concerto di Beethoven, opera giovanile (risalente al 1795, un Beethoven quindi venticinquenne) e primo dei cinque concerti per pianoforte e orchestra, per quanto in realtà non il primo in ordine di realizzazione; un’opera in cui giocoforza traspare la lezione appresa da Mozart, da Haydn e più in generale dai maestri che precedettero lo stesso musicista di Bonn (certo però l’impiego del clarinetto, nel Settecento tutt’altro che scontato e che pure era stato a un certo punto assai sfruttato da Mozart, in qualche maniera preannuncia e anzi annuncia uno degli sviluppi dell’orchestrazione ottocentesca). In tal senso, per questo Primo concerto potrebbe almeno in parte dirsi, pur consapevole che non tutti saranno d’accordo, che trattasi di un Beethoven non ancora Beethoven, un po’ come, mutatis mutandis, il Rienzi è figlio di un Wagner non ancora pienamente Wagner.
Durante l’introduzione orchestrale, la Argerich sembra danzare insieme alla compagine condotta dal direttore emerito dell’OSN Rai Fabio Luisi, talvolta scrutandone in dettaglio le varie sezioni, tra uno schiocco di dita e l’altro. Con una certa asciuttezza la pianista argentina si cimenta in questo concerto beethoveniano che da qualche anno i suoi sostenitori sono usi ascoltare con una relativa frequenza; certo è forse più radicata l’immagine di una Argerich pronta a rimbalzare sulle terzine e sugli incroci del Concerto in sol maggiore di Ravel (in tanti ricordano l’esecuzione, proprio in questa sala, del febbraio del 2009 con Andrej Borejko alla bacchetta), o quella che declama gli ampi temi del Primo concerto di Chopin, per non dire della Argerich che sfoggia il proprio atletismo, talvolta quasi muscolare, nel Terzo concerto di Prokofiev. Qui no: nel Primo concerto di Beethoven il tutto viene talvolta ricondotto a una grazia quasi rococò, segno di un riuscito tentativo di inserirsi nello stile e in una visione storica (certo con un taglio personale, come da interprete che si possa dire tale): da sempre rifiutatasi di definirsi specialista di una qualche epoca o di un repertorio particolare, Martha Argerich è una delle poche interpreti che possano permettersi di affermare tutto ciò senza apparire eccessivamente disinvolta o dilettantesca. Sicché magari potrà da taluni essere particolarmente apprezzata, poniamo, nel repertorio di primo Ottocento, ma è innegabile, ad esempio, l’interesse che per ragioni molteplici suscitano le sue incursioni bachiane. La versatilità estetica e tecnica che esprime è certamente non comune ed è verosimilmente tra le maggiori caratteristiche della stessa pianista ottantaduenne (il che è prodigioso, considerato il livello musicale e digitale mantenuto). E poi, il suono: ad esempio, nel cantabile successivo al primo movimento (Largo) apprezziamo un suono pieno, delicato ma con un peso specifico notevole; insomma, un suono che rimane, che non è superficialmente lieve come quello che pur fior di interpreti inseguono, forse fraintendendo (scuole pianistiche a parte) il significato, la natura, la delicatezza del cantabile, beethoveniano e non solo. Mirabilia di Martha Argerich, si diceva, anche se tutto ciò non ci ha impedito di percepire, talvolta, bisogna dire in rari passaggi, una certa tendenza a un’ingiustificata accelerazione; non, si badi, espediente atto a trascinare un’orchestra dall’incedere pesante (un’orchestra anzi sempre meglio assortita e con gli ingranaggi al posto giusto); mi riferisco a un vero e proprio lieve ma ravvisabile improvviso accelerare, ripeto non certo manifestazione frequente. Infine la Argerich ha ceduto alle insistenze del pubblico concedendo un breve bis, costituito da alcuni stralci della Terza suite inglese (quella in sol minore) di Johann Sebastian Bach, segnatamente le due gavotte.
E veniamo alla seconda parte della serata, dedicata alla Quinta sinfonia di Čajkovskij e pertanto a un’orchestra assai diversa da quella di Beethoven e del giovane Beethoven in particolare. Mi pare che Luisi abbia per così dire ricostituito questa celebre pagina del sinfonismo tardo ottocentesco in maniera a un tempo efficace e sinuosa, e questo anche per il modo di sottolineare i numerosi contrasti, gli aromi (suppongo mi sia venuto da utilizzare questo termine sapendo che, quando non è impegnato sul podio, il direttore d’orchestra genovese è appassionato creatore di profumi), più in generale i tanti volti di questa sinfonia, caratteri che poi sono propri del sinfonismo tout court del compositore russo: musica da concerto, incedere militare, atmosfere da balletto e molto altro, tutto ciò si sussegue e si lega all’interno dei quattro episodi che compongono la Quinta sinfonia. La bella melodia con cui debutta il secondo episodio (Andante cantabile con alcuna licenza) è forse uno dei passaggi più noti di tutta l’opera, in questo caso dalle linee complessivamente ben disegnate dal primo corno Francesco Mattioli. Tanto altro potrebbe dirsi, naturalmente. Complessivamente si tratta di una prova persuasiva, che evocherebbe paragoni con altre importanti compagini sinfoniche; tuttavia eviterò qui raffronti con le esecuzioni di altre orchestre italiane, europee e non solo, e questo perché mi preme più che altro sottolineare come l’OSN vada maturando sempre più un’identità propria. Ed è secondo questa identità, voglio dire secondo una propria lettura, un proprio suono, una propria peculiare conformazione e direzione, che essa restituisce al pubblico questi capolavori. Perché la Quinta sinfonia è certamente un capolavoro del sinfonismo tardo ottocentesco, ciò che non impedirà al suo autore di rigettarlo, allorché la prima esecuzione non sarà esattamente all’altezza delle aspettative (ma quante prime nella storia della musica, anche limitandoci alla sola musica russa, hanno conosciuto lo stesso destino? Ci siamo dimenticati, come ha ricordato Enzo Restagno, dello stravinskiano Sacre du printemps ribattezzato Massacre du printemps?). Insomma, a un certo punto Čajkovskij avvertì l’esigenza di distanziarsi da un lavoro per il quale aveva investito molte energie. Ennesimo segnale di un animo fragile e tormentato, che forse proprio per questo è stato capace di donare al mondo alcune tra le pagine sinfoniche più belle degli ultimi centocinquant’anni.
Marco Testa