Miti e metateatro per le scommesse operistiche di Spoleto

Ariadne/Bourgeois (foto Gianluca Pantaleo)

STRAUSS Le bourgeois gentilhomme; Ariadne auf Naxos A. Staples, A.L. Elbert, E. Magee, G. Baveyan, S. Patterson, D. Novola, J. De Dios Mateos, S. Gaul, O. Vermeulen, M. Hagen; Budapest Festival Orchestra, direttore e regista Iván Fischer co-regia e coreografia Chiara D’Anna

Teatro Nuovo, 28 giugno 2024

GLUCK Orfeo ed Euridice Raffaele Pe, Nadia Mchantaf, Josefine Mindus; Orchestra dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Vocalconsort Berlin, direttore Antonello Manacorda regia Damiano Michieletto scenografia Paolo Fantin costumi Klaus Bruns

Teatro Nuovo, 6 luglio 2024

Questa volta il Festival dei Due Mondi di Spoleto ha voluto fare le cose in grande. Non un solo nuovo allestimento di opera, come da consolidata tradizione, bensì due, così da accontentare sia gli appassionati del melodramma novecentesco che della musica settecentesca. E lo ha fatto soprattutto seguendo il filo conduttore del mito, sempre attuale nelle sue molte valenze, nella maniera meno scontata e più innovativa a partire dalla affollatissima serata inaugurale, riservata a Richard Strauss ed alla sua Ariadne auf Naxos (1916). Non si trattava infatti della “solita” Ariadne, in quanto l’atto unico che racconta le vicende drammatiche, seppur a lieto fine, della abbandonata Arianna non è preceduto come di prassi dal Prologo che ne costituisce la cornice (il pubblico settecentesco che assiste alla favola) bensì dalla suite del Bourgeois gentilhomme che lo stesso Strauss compose (complice la genialità dell’amico Hofmannsthal) per la commedia di Molière, ricavandola da quella che originalmente (nel 1912) doveva essere la vera cornice dell’Ariadne.

Una Suite eseguita dalla duttile e proteiforme Budapest Festival Orchestra diretta da Iván Fischer con perfetta integrazione con gli attori, cantanti in funzione di mimi che sottopongono l’orchestra a inusuali situazioni, munendola di stravaganti copricapo carnascialeschi e coinvolgendola nel movimento scenico per anticipare già il côté leggero dell’opera. Già la prima parte dunque era stravagantemente accattivante ( il maestro era costretto a dirigere addirittura anche coricato), ma i cantanti entrano in scena nell’atto unico che, come è noto, ha la caratteristica di sovrapporre spericolatamente i toni della commedia e quelli della tragedia, del buffonesco e del dramma: la disperata ed affranta Arianna sarà consolata, senza invero molto successo, dalla colorita troupe delle maschere dei Comici dell’Arte capitanati dalla vispa Zerbinetta, l’altra faccia dell’amore, libertino e libertario, contrapposto a quello della fedele Arianna. Solo l’arrivo via mare del dio Bacco potrà asciugare le lacrime della affranta Arianna, abbandonata da Teseo (tema caro alla musica da Monteverdi a Massenet passando per Porpora e Händel).

In una scena sobria con rocce e onde marine stilizzate si è comunque apprezzata sia la messinscena firmata (come lo scorso anno per il Pelléas) dallo stesso Fischer e da Chiara D’Anna, sia l’esecuzione vocale affidata ad Emily Magee, soprano drammatico dalla densità wagneriana (Arianna), Anna Lena Elbert, soprano di agilità, attorialmente eccellente ma un po’ a corto di sovracuti e il tenorone Andrew Staples, un corpulento Bacco. Se il buongiorno si vede dal mattino, non poteva esserci produzione metateatrale, migliore destinata ad accontentare sia palati esigenti che pubblico generalista.

Orfeo ed Euridice (foto: Andrea Veroni)

Il secondo titolo lirico del Festival attingeva invece al cuore del neoclassicismo tardo-settecentesco con l’Orfeo ed Euridice di Gluck, nella versione viennese del 1762. A dare vita alla musica del cavalier Gluck e al suo primo seppur ancor imperfetto tentativo di riforma del melodramma serio settecentesco era l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, diretta con puntualità da Antonello Manacorda. Un’opera nata dagli stimoli derivanti dal compiuto libretto di Calzabigi, che insieme al coreografo Angiolini fu l’ideologo della cosiddetta riforma (eliminazione dei recitativi secchi, dei da capo delle arie, pregnanza drammatica delle Sinfonie di apertura, significato drammatico di cori e danze, già presenti nel teatro francese ma solo a scopo esornativo). Insomma, tra poesia e musica era ora il dramma ad entrare in scena.

Molto era da attendersi dalla regia di Damiano Michieletto, il regista del momento. E difatti egli ha saputo riscrivere la vicenda pastorale in termini di attualità, abbandonando ninfe e boschetti, anzi trasportando il plot in una corsia di ospedale dove giacciono le spoglie dell’infelice Euridice. Un decesso che segue, nella neutra Sinfonia, il ritratto di una giovane coppia che scoppia. Tutto poi segue coerentemente di conseguenza e gli riesce: l’ossessione che moltiplica nella mente del giovane marito l’immagine della moglie defunta, il tentativo di suicidio con la pistola del vigilante, l’intervento risolutivo di un Amore in blu elettrico con paillette e tuba quasi da mago-prestigiatore televisivo, le nere ombre antropomorfe degli Inferi che spogliandosi diventano luminosi spiriti beati dei Campi Elisi. C’è forse solo da rammaricarsi di aver dato ancora una volta poco spazio alla danza, che invece nell’estetica di Gluck contribuiva ad una visione “totale” dello spettacolo.

Vocalmente e attorialmente parlando tutta l’opera poggiava sulle solide spalle del controtenore Raffaele Pe, chiamato ad interpretare il ruolo del castrato Guadagni che ne fu primo interprete a Vienna: il centro dell’opera è difatti il suo dramma e gli opposti sentimenti che determina in lui la scomparsa dell’amata Euridice, dalla rabbia alla speranza. Apprezzabili anche la Euridice sfuggente, diafana e leggera ma umana di Nadja Mchantaf, l’Amore vispo e mattatore di Josefine Mindus e l’esperto Vocalconsort Berlin. Anche questa volta il pubblico ha dimostrato di gradire.

Lorenzo Tozzi

Data di pubblicazione: 10 Luglio 2024

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