GIORDANO Fedora S. Yoncheva, S. Gamberoni, R. Alagna, G. Petean, C. Piva, G. Bonfatti, C. Bosi, A. Pellegrini, G. Montresor, R. Dal Zovo, C. Finucci; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Marco Armiliato regia Mario Martone scene Margherita Palli costumi Ursula Patzak
Milano, Teatro alla Scala, 21 ottobre 2022
Che senso ha, oggi, riportare in scena Fedora? Davvero il pubblico riesce a credere a questo teatro sovreccitato, dalla trama inverosimile, musicalmente infarcito di luoghi comuni, e che per comunicare qualche frisson non può prescindere dalla presenza di una primadonna veramente eccezionale, nonché di un direttore che creda in questa musica e che, soprattutto, ne comprenda le ragioni più profonde? Io sono molto scettico: la Scala riportava il titolo di Giordano sul proprio palcoscenico dopo le mitiche, indimenticabili recite degli anni ’90 (e tralasciando la mesta ripresa del 2004 agli Arcimboldi), che vedevano sul podio Gianandrea Gavazzeni — che si è portato nella tomba il segreto di come questa modesta partitura possa sembrare molto più di quello che è — e in scena un Plácido Domingo all’apice delle proprie possibilità e, ancor di più, una indimenticabile Mirella Freni, capace — pur in tarda età — di risolvere in maniera sbalorditiva una parte tecnicamente scomodissima, conferendo alla sua Fedora accenti di volta in volta passionali, drammatici, alteri, con un equilibrio e un’intensità travolgenti. Oggi, ottobre 2022, di tutto questo c’era solo un pallido ricordo: a partire proprio dalla protagonista, Sonya Yoncheva. Che è bella, avvenente, ma che sembra, anche fisicamente, poco interessata al ruolo, e che fa una fatica diabolica nel registro medio-basso (che è poi quello dove insiste Fedora, per almeno metà del tempo), in cui sceglie di evitare il registro di petto per ricorrere ad una emissione “mista” che è sgradevole timbricamente e che non passa l’orchestra. Ma neppure in alto fa faville: per emettere l’unico Do (peraltro opzionale) ricorre a una prudenziale presa di fiato, che non le fa onore. Molto meglio, si capisce, Roberto Alagna, il figliuol prodigo che ritorna a Milano dopo la famigerata Aida del 2006: a quasi sessant’anni mantiene il suo colore squillante, schiettamente tenorile, facile all’acuto, e nonostante una certa genericità si rivela un Loris passionale e convincente. Certo, la tendenza ad allungare a dismisura ogni minima espansione melodica (a partire da “Amor ti vieta”) non è esattamente di buon gusto: ma lì sarebbe dovuto intervenire il direttore d’orchestra. Marco Armiliato, in effetti, è quel che si definisce un impeccabile professionista: con lui tutto fila liscio, sotto il piano tecnico. Ma quel profumo orchestrale di rose sfiorite, quell’atmosfera decadente e misteriosa che Gavazzeni sapeva evocare fin dalle prime battute, e anche quel clima incalzante del secondo atto… beh, lo si cercherebbe invano. Ottima la Olga di Serena Gamberoni (che scorrazza pel palco sulle due ruote, ma non ha avuto la chance di vedersi riaperto il taglio dell’aria “della bicicletta”), modesto e distratto il De Siriex di George Petean, e di gran lusso il folto stuolo di comprimari. Rimarrebbe da dire dello spettacolo di Mario Martone: che manca completamente il bersaglio. Strappare Fedora (la cui partitura contiene decine di pagine di minuziosissime indicazioni sceniche, non a caso) dal suo contesto storico-culturale è rischiosissimo: strappando l’edera dal castello, il rischio è che crolli anche quest’ultimo. Rischioso ma non impossibile: una storia di spie, di assassini, di amori passionali nella Russia odierna sarebbe perfettamente plausibile. Ma un’ambientazione che unisce citazioni magrittiane a scenari milanesi (la villa del second’atto sembra richiamare quella del recente Rigoletto!), simbolismo e naturalismo, momenti completamente fuori fuoco (l’intermezzo a sipario chiuso, con Olga che passeggia stranita in faccia al pubblico: che senso ha?) e qualche sporadica intuizione, beh, tutto ciò enfatizza le tante debolezze drammaturgiche di quest’opera stramba, che però potrebbe infuocare ancora il pubblico. A patto che…
Nicola Cattò
Foto: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala