MOZART-SÜSSMAYR Requiem J. Grigoryan, C. Molinari, G. Sala, A. Plachetka; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Thomas Guggeis
Milano, Teatro alla Scala, 29 giugno 2024
Se si fanno i conti tra calendario e scaffale, il Requiem di Mozart lo si ascolta meno dal vivo che in disco; ed è forse da una certa imprevedibile disabitudine concertistica che può derivare una mezza papera. Al Teatro alla Scala, il 29 giugno e il 3 e il 5 luglio, la celebre partitura ha meritato il tutto esaurito e un pubblico insolitamente motivato, ma forse non s’era tenuto conto della durata d’ascolto della composizione, tale da non far serata da sola: in 48 minuti d’orologio, silenzi compresi, tutto s’era compiuto, all’uscita il sole non era ancora tramontato e la Milano-bene indugiava nel foyer, cercando di recuperare qualcosa della mancata socialità al mancato intervallo. Quantità poca, tuttavia, e qualità molta. Concertatore, come nella concomitante Turandot, doveva essere Daniel Harding, che con opinabile rispetto di questo primo teatro del mondo ha però preferito anteporre la famiglia al contratto. Poco male: al suo posto è arrivato lo stesso Thomas Guggeis che sul finire dello scorso inverno aveva diretto alla Scala un altro Mozart, Die Entführung aus dem Serail, e con la più mirabile spigliatezza, forbitezza, brillantezza, aggiungendo al cantabile velluto delle maestranze scaligere la luminosa setosità in voga a Dresda. A distinguere questo direttore è una dote che, riconoscendola in lui, palesa quanto raramente la si trovi nella moltitudine dei colleghi: Guggeis ama la musica, ne fa una questione vitale, non ammette automatismi; mentre l’esecuzione si sta svolgendo, s’ascolta non il prodotto concluso con le prove, ma la ricerca interpretativa che è ancora in corso, a ogni battuta, instancabilmente, mai soddisfatta di sé. Ne deriva un Requiem immune alla calligrafia e vigile nella spontaneità, sospeso alla perfezione – come i migliori giovani oggi sanno insegnare alle generazioni più mature – tra 230 anni di tradizione esecutiva, non tutta da buttare malgrado le sedimentazioni culturali, e l’attesa, attenta, doverosa riappropriazione di taluna corretta prassi storica. In altre parole, con due esempi: il passo è romanticamente poderoso e la pasta è pensosamente caliginosa, ma ecco che nel primo coro della Dies iræ il metronomo s’infervora e la macchina bellica di trombe e timpani “buca” l’amalgama timbrico con vigorosi gesti centrifughi, figli dell’età moderna e non di quella contemporanea. Sicché dispiace, qui più che altrove, imbattersi negli errori di lettura che il così fan tutti ha fossilizzato: è il caso, in particolare, delle frasi implicitamente destinate ai solisti, ma passivamente devolute alla massa corale, annullando così – col suo esaltante effetto prospettico, epidermico anche su chi non si fida – la dialettica tra voci di concerto e voci di ripieno (si considerino, nel coro menzionato, le battute dalla seconda metà di 40 alla prima di 52: sarebbero tutte solistiche, e l’indicazione bassi si riferisce alla totalità di quelli non del coro, bensì dell’orchestra, dopo che i violoncelli sono stati temporaneamente lasciati soli dai contrabbassi, per sostenere con meno fragore le singole voci – non le intere sezioni – di canto, alto e tenore). Orchestra e coro della Scala, va da sé, formidabili come a loro va di essere ogni volta che sul podio salga un direttore degno di tanto patrimonio tecnico e poetico (con un arruffato incidente del trombone tenore all’attacco di «Tuba mirum»: s’è sorriso di benevolenza, ché, se no, queste compagini incuterebbero timore soltanto). Quartetto dei solisti, al contrario, dignitoso di leggio in leggio ma peccante di disomogeneità: con una simpatica casualità perdonabile a Vienna ma un tantino meno a Milano, sono infatti convenuti assieme il dovizioso smalto esotico del soprano Juliana Grigoryan, l’idiomatica ma un po’ timida comunicativa del mezzosoprano Cecilia Molinari, l’educato ma generico e arido mezzo dell’ubiquo tenore Giovanni Sala, infine il gagliardo vocione rimbombante dello slavo basso Adam Plachetka.
Francesco Lora