TUTINO Falcone e Borsellino. L’eredità dei giusti M.T. Leva, J. Lazzini, A. Manella, M. Mavaracchio, F. Osso, S. Tudda; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Alessandro Cadario
Milano, Teatro Strehler, 28 giugno 2022
È difficile raccontare con musica e parole il sacrificio di Falcone e Borsellino senza cadere nella retorica e nelle banalità del già detto e del già ascoltato. Ci sono riusciti il compositore Marco Tutino e la regista Emanuela Giordano, costruendo per il trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio un “racconto in musica” della durata di poco più di un’ora che possiede la forza di una freccia scagliata da un arco robusto nella coscienza del pubblico. Dopo le prime due rappresentazioni torinesi di fine maggio, Falcone e Borsellino. L’eredità dei giusti, coprodotto dal Piccolo di Milano, dal Teatro Regio di Torino, da MITO Settembre Musica e dal Teatro Massimo di Palermo, è approdato al Teatro Strehler di Milano. È uno spettacolo dalla nuda forza drammatica, basato su un ampio dispiegamento di mezzi — l’Orchestra e il Coro del Regio, cinque attori del Piccolo, il soprano Maria Teresa Leva ed i video montati da Pierfrancesco Li Donni e Matteo Gherardini — usati però con estrema economia espressiva, che ha scosso la platea nella sua raggelante essenzialità.
È una sorta di melologo, L’eredità dei giusti, ma è anche un’opera multimediale, specialmente nella prima parte, quando le immagini sul grande schermo in fondo al palcoscenico rievocano le stragi del 1992, ed anche teatro di prosa, quando i giovani Jonathan Lazzini, Anna Manella, Marco Mavaracchio, Francesca Osso e Simone Tudda – tutti da lodare per la recitazione asciutta e un perfetto senso del ritmo scenico – declamano, davanti all’orchestra, frammenti di memoria, riflessioni, parole della gente comune e soprattutto il testo chiave del lavoro, Cosa resta di noi, scritto dalla stessa Emanuela Giordano. Vengono da lì le parole del titolo, L’eredità dei giusti, parole di una potenza rara perché mettono in chiaro che il pubblico non è in teatro semplicemente per assistere a uno spettacolo, ma per partecipare, facendosi testimone di un messaggio.
Possono la musica e il teatro diventare il motore di una presa di coscienza civile? Un artista può ancora dare un contributo significativo alla società? Emanuela Giordano e Marco Tutino ne sono convinti e lo dimostrano con uno spettacolo potente, in cui le parole suonano dure come moniti e la musica è come una marea lunga che avanza sommergendo tutto con la sua forza evocativa e la sua energia vitale. All’inizio è musica bianchissima e immobile nel fraseggio lungo degli archi, punteggiato dalle minacciose percussioni, mentre sullo sfondo scorrono immagini di distruzione e di morte, poi prende a poco a poco vita e lo fa sfruttando gli stilemi più diversi, dall’accompagnamento in terzine di belliniana memoria nella sezione sulle parole “Basta così” ai cromatismi wagneriani del primo intervento del soprano fino alla polifonia arcaizzante del primo intervento del coro, che rimanda ai lavori sacri di Stravinski.
È lontano dagli sperimentalismi, Marco Tutino, e resta sostanzialmente nell’ambito del linguaggio tonale ma senza sensi di colpa e con un infallibile senso drammatico: se le singole componenti sono «vecchie», la sua musica suona in realtà vitale. Succede anche quando cita se stessa, come nel caso del “Libera me”, su testo di Vincenzo Consolo, tratto dal Requiem scritto a più mani ed eseguito a Palermo nel 1993, a un anno dalle stragi, che ricompare con poche modifiche al centro della seconda delle tre sezioni del lavoro: le voci del coro sembrano letteralmente galleggiare sull’orchestra, che ha qualcosa di enigmatico nella sua apparente immobilità, qualcosa di simile alla musica di Arvo Pärt, a fare da preludio all’entrata del soprano, l’ottima Maria Teresa Leva, a cui viene invece affidata una melodia dal profilo operistico.
In altri momenti la musica di Tutino si impregna di un’intensità melodica di matrice pucciniana, come accade nel finale, al termine di un viaggio nella memoria che è anche un necessario ritorno al presente, perché l’approdo finale è proprio la presa di coscienza, da parte degli spettatori, della necessità di raccogliere «l’eredità» di Falcone e Borsellino per cambiare la società di oggi. Qui il soprano intona una poesia in dialetto siciliano di Ignazio Buttitta, partigiano e poeta, dopo che è stata recitata dai cinque attori nel nudo silenzio dell’orchestra, e la intona nei modi della Turandot, con una vocalità sontuosa e ammaliante, capace di avvolgere nel suo abbraccio – la poesia è un invito alla fratellanza – l’intera platea: questa musica compie il miracolo di rivelare i suoi modelli rivelandosi nel contempo nuova.
Sul podio Alessandro Cadario si è mosso con l’autorevolezza che gli viene da una lunga frequentazione della musica di Tutino, risolvendo anche il nodo della difficile acustica dello Strehler, naturalmente pensato per la prosa e non per la musica, in un’interpretazione in cui nulla ha fatto per apparire, cercando sempre la compattezza del suono e la fluidità del fraseggio. A dimostrarlo erano pastosi amalgami del coro e dell’orchestra, i piani sonori calcolati con cura, i crescendo di grande potenza drammatica, per esempio sulle amore parole “Non si sporca più le mani. Uccide senza chiasso”, declamate dagli attori a raccontare cosa è diventata oggi la mafia. E il fraseggio aveva una dolcezza segreta, nel segno di un legato costantemente cercato sul podio e che orchestra e coro hanno saputo rendere con estrema efficacia espressiva.
Luca Segalla
[Le foto di Andrea Macchia si riferiscono alla rappresentazione al Regio di Torino]