WAGNER Das Rheingold D. Welton, D. Köninger, M. Peter, T. Akzeybek, K. Wundsam, N. Mchantaf, G. Romberger, D. Schmutzhard, Th. Ebenstein, T. Faveyts, T. Rönnebeck, A. Vegry, I. Aldrian, E. Vogel, Floßhilde; Dresdner Festspielorchester e Concerto Köln, direttore Kent Nagano
Dresda, Kulturpalast, 14 giugno 2023
Nel corso dei suoi quarant’anni di storia, il Dresden Music Festival si è affermato come un’istituzione culturale importante non solo a Dresda, capace di attirare un pubblico ben oltre i confini della Germania nelle sue tre settimane di programmazione.
Vertice della programmazione di quest’anno è l’avvio di un progetto di riproposta delle quattro giornate del Ring des Nibelungen di Wagner secondo la prassi esecutiva dell’epoca. Motore dell’iniziativa sono il direttore artistico del Festival, Jan Vogler, e il direttore d’orchestra Kent Nagano che hanno dato vita all’ambizioso progetto di eseguire da qui al 2026 — anno in cui si festeggeranno i 150 anni del primo Festival di Bayreuth — l’intera tetralogia collocandola nel contesto artistico del tempo in cui è stata creata sulla base delle più recenti scoperte musicologhe e sullo studio della pratica esecutiva dell’epoca. Un programma che si sostanzia anche in un approfondito lavoro di studio attraverso l’istituzione di una Wagner Academy. Numerosi gli studiosi coinvolti: dall’approfondimento della pratica vocale del tempo alla costruzione degli strumenti impiegati fino all’attenzione alla corretta pronuncia tedesca.
Un lavoro che viene dopo l’esperienza condotta a Colonia, tra il 2018 e il 2021, intitolata “Wagner Lesarten” e avviata dal complesso su strumenti storici Concerto Köln assieme a Kent Nagano e la fondazione culturale Kunststiftung NRW del Nord Reno-Westfalia.
Dalle sponde del Reno il progetto si è spostato in riva all’Elba, a Dresda, città wagneriana quant’altra mai, dove Wagner trascorse la sua infanzia e giovinezza formative, il luogo in cui furono rappresentate per la prima volta tre delle sue opere (Rienzi, L’olandese volante e Tannhäuser), dove per un breve periodo il musicista ottenne il posto di direttore d’orchestra dell’Opera di Dresda e nel 1848 partecipò ai moti rivoluzionari, che gli costarono l’esilio in Svizzera.
L’esecuzione, data in forma di concerto nella sala grande del Kulturpalast, dalla magnifica acustica, vedeva schierati gli strumentisti del Concerto Köln assieme all’Orchestra del Festival, una formazione, riunitasi per l’occasione, composta di musicisti provenienti da altre compagini abituate alla prassi esecutiva storicamente informata. Se è vero che l’intera operazione potrà essere giudicata pienamente solo dopo la Götterdämmerung, tuttavia il bilancio di questa prima giornata ci è parso positivo.
La curiosità dei moltissimi spettatori che assiepavano il teatro era enorme. In realtà non era la prima volta in assoluto che si tentava un’operazione simile. Bruno Weil nel 2005 propose una versione de L’olandese volante con la Cappella Coloniensis, nel 2013 Thomas Hengelbrock un Parsifal con la Balthasar-Neumann-Ensembles, nel 2016 Marc Minkowski ancora L’olandese volante con i suoi Musiciens du Louvre. Di assolutamente originale, però, è questa volta l’enorme lavoro che è stato condotto sulla prassi esecutiva, sulla pratica costruttiva degli strumenti e addirittura sulla dizione (“Chiunque non sappia distinguere la g dalla ch è un barbaro non tedesco” scriveva Richard Wagner a proposito della pronuncia) ed intonazione della lingua tedesca ai tempi di Wagner (per esempio la generale attenuazione dei toni e l’enfasi sulle allitterazioni). Le fonti utilizzate sono di vario tipo, tra cui le testimonianze lasciate da una delle cantanti più amate da Wagner, Wilhelmine Schröder-Devrient, prima interprete di Senta nel Vascello fantasma e di Venere nel Tannhäuser. Sue, per esempio, le indicazioni sull’intonazione parlata di alcune frasi, come quelle di Erda o delle Figlie del Reno — che hanno non poco stupito all’ascolto — o sull’uso dei portamenti.
Ma in generale l’impressione è che a risultare ottimale nell’esecuzione fosse il bilanciamento tra la massa orchestrale e gli interpreti vocali, che hanno sempre cantato in maniera intelligibile, come raramente si ascolta. Aiutati senz’altro dall’accordatura degli strumenti, abbassata a 435 Hertz, senza che però ne rimanesse penalizzata la densa scrittura orchestrale. Tutto risultava molto chiaro, trasparente, con i fiati mai troppo in evidenza, gli archi con le corde in budello, il vibrato molto parco o addirittura assente. Certo, chi ama le esecuzioni di taglio romanico, con i densi colori che tanto affascinano nella scrittura wagneriana, sarà rimasto un po’ deluso da certi suoni più sbiancati, dai fraseggi asciutti. Anche i fiati risultavano meno imperiosi nei loro interventi, alcuni perfettibili nell’intonazione, eppure in generale l’esecuzione non era priva di fascino. E certo le soluzioni adottate meglio si combinavano con i tratti della prima giornata della Tetralogia: sarà interessante ascoltare l’effetto e la tenuta complessiva in Walkiria e nella Götterdämmerung.
Il celebre attacco, con il prolungamento della nota fondamentale, un mi bemolle, su cui micro moduli creano movimenti apparentemente nulli in un moto inarrestabile che tiene col fiato sospeso per quasi cinque minuti, era davvero qualcosa di nuovo: meno esoterico, meno capace di evocare una dimensione soprannaturale, aveva qui qualcosa di terragno, di primordiale, un suono “grezzo” e informe che ricordava l’incipit della Creazione di Haydn.
I tempi scelti da Nagano sono stati generalmente spediti, agili e scattanti. È sembrato in più punti ricondurre l’innovativa scrittura wagneriana a matrici stilistiche a lui contemporanee o del recente passato: gli interventi di Loge, per esempio, avevano una briosità pungente ed estrosa quasi da opera comica — absit iniuria verbis –– e gli accompagnamenti avevano un che della leggerezza sulfurea di certi passaggi mendelssohniani.
Per quanto riguarda il fitto stuolo dei cantanti, vale la pena di iniziare proprio dal bravissimo Mauro Peter, fine liederista e tenore mozartiano, che ha impersonato un Loge ironico, più lirico che parlato, dalla mimica accattivante, vero trionfatore della serata. Guizzante e astuta divinità del fuoco, il suo Loge è apparso cinico nel considerarsi superiore agli altri dei, nonostante il suo rango inferiore. Splendido anche l’Alberich lascivo del baritono Daniel Schmutzhard, tratteggiato in tutta la sua sinistra malvagità, molto applaudito dal pubblico.
Si ricordano poi Tilman Rönnebeck con dalla dizione cristallina come Fafner, le Rheintöchter vocalmente mutevoli (ottime Ania Vegry come Flosshilde e Ida Aldrian come Wellgunde, timbro infelice invece quello di Eva Vogel), la vulnerabile Freia di Nadja Mchantaf, Erda di Gerhild Romberg. Da segnalare l’eccellente prova del basso australiano Derek Welton come Wotan, ritratto in tutta la sua irruenza giovanile e determinazione, una parte già altre volte cantata nei teatri tedeschi. Più modesta la prova di Katrin Wundsam come Fricka.
Stefano Pagliantini