SPONTINI Fernand Cortez D. Schmunk, A. Voulgaridou, L. Lombardi, D. Ferri Durà; Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Jean-Luc Tingaud regia Cecilia Ligorio scene Massimo Cecchetto e Alessia Colosso costumi Vera Pierantonio Giua luci Maria Domenech coreografia Alessio Maria Romano
Firenze, Teatro dell’Opera, 16 ottobre 2019
Alla fine per Firenze, se la gestione Chiarot-Luisi è terminata, una forte speranza di cambiamento è possibile, oltreché auspicabile, fin dall’annuncio dell’arrivo alla guida del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino del settantaduenne viennese Alexander Pereira, sovrintendente proveniente dalle più illuminate stagioni dell’Opera di Zurigo, del Festival di Salisburgo, della Scala di Milano.
Aspettando la sua nuova programmazione, i grandi nomi già annunciati e previsti, le produzioni di portata, e diffusione, internazionale, la Stagione lirica e sinfonica 2019/2020 di Firenze, dopo un incomprensibile dittico, apre con quella che sulla carta era una delle sue produzioni più prestigiose e che, nel concreto, ha invece confermato il senso di indeterminazione e parzialità che permane ormai da tempo. Un titolo d’apertura come il Fernand Cortez ou La conquête du Mexique, di Gaspare Spontini, poteva infatti portare vento fresco e interesse, se vi fossero stati motivi di originalità e sorpresa che invece sono totalmente mancati, a partire dalla prudenza con cui la regista Cecilia Ligorio ha trattato il pur confuso materiale drammaturgico. Il canovaccio, originato da una commissione di Napoleone, impegnato al tempo nella campagna di annessione della Spagna, era sì sconnesso e inverosimile (l’allegoria che avrebbe dovuto rappresentare gli spagnoli come i messicani dediti al politeismo azteco e i francesi come i cattolici che portavano civiltà e cristianesimo!), ma proprio per questo da una regia ci si aspettava un lavoro che rendesse la linea drammaturgica più netta, decisa a svelare le incongruenze della narrazione originale e a rilevare, semmai, le contraddizioni più evidenti con elementi di maggior impatto e, magari, denuncia, anche in virtù dell’ottimo impianto coreografico firmato da Alessio Maria Romano che riesce, nonostante la prudenza della regia e l’incomprensibile basso livello tecnico espresso dalla compagnia di ballo, a innalzare un po’ empatia e pathos nelle poche scene espressive presenti.
Questo Cortez segnala anche un’ulteriore incongruenza nelle scelte fatte a suo tempo da Luisi, che apportò tagli alle partiture della Trilogia popolare verdiane, mentre qui si presenta un lavoro completo, interminabile con tutti i da capo, le ripetizioni e i balletti che Spontini scrisse per questo lavoro, col risultato di proporre al pubblico quattro ore e mezza di uno spettacolo sostenuto quasi interamente da un efficace e meritevole lavoro scenografico, di cui va pieno merito ad Alessia Colosso e Massimo Cecchetto, che hanno risolto nel migliore dei modi il rapporto fra elementi, illuminazione (a cura di Maria Domenech) ed effetti, in efficace e pur equilibrata interazione.
È, questo Fernand Cortez, un’opera ragionevolmente cancellata dai cartelloni dei teatri d’opera di tutto il mondo. Un’opera di debole struttura, basata su una scrittura, musicale e vocale, che raramente va oltre il già sentito, il banale. Non si parli poi dei numeri d’assieme o dei cori, che nemmeno il collaudato e ottimo complesso del Maggio è riuscito a rinvigorire.
Non meglio sono andati i troppi, imprecisi, esagerati e pedissequi balletti, anche perché al Teatro d’opera fiorentino si è tolto un Corpo di ballo stabile e organico pochi anni fa: come può venire in mente di programmare oggi un’edizione del Cortez come questa, dove sono più i balletti che i confusi testi a narrare la vicenda, presentati da un corpo di ballo approssimato, incapace di restituire mai un sincrono, di creare omogeneità, plasticità?
Gli interpreti in buca consentono una lettura chiarissima della partitura di Spontini che però qui, anziché impressionare favorevolmente, presta il fianco alle sue tante esitazioni e alle troppe soluzioni di comodo che il compositore di Majolati sfrutta.
Niente di che il cast messo insieme per l’occasione. Dario Schmunk è professionista sensibile e di mestiere, ma non ha mai posseduto quelle caratteristiche vocali, naturalmente ascrivibili al personaggio di conduttore ed eroe, che Fernand richiede. Timbro stentoreo, ampia proiezione sonora, declamati tonanti mancano, e a nulla valgono stile e raffinatezza quando tutte le linee vocali seguono una scrittura centrale e priva di effettistica, che Spontini sceglie per un baritenore dalla tessitura sicura e centrale.
Migliore il risultato fornito da Alexia Volgaridou come Amazily: timbro piacevolmente scuro e voce duttile nelle poche modulazioni presenti, descrive come può l’ennesimo personaggio poco risolto dal libretto. Oltre il modesto non vanno gli altri personaggi di Telasco, Luca Lombardo, Alvar, David Ferri Durà e i buoni altri cantanti presi dal coro.
Il direttore Jean-Luc Tingaud si limita a tenere tutto assieme, con una gestualità piuttosto confusa e una concertazione che lascia non pochi dubbi a chi ascolta.
Il poco pubblico, galleria e palchi spostati tutti in platea, ha evidenziato una falla comunicativa fra il Teatro del Maggio e la sua Firenze che non sembra colmarsi. Speriamo in un cambiamento prossimo e di reale efficacia.
Davide Toschi
Foto: Michele Monasta