VERDI Rigoletto C. Álvarez/A. Enkhbat, R. Iniesta/G. Fiume, S. Pop/I. Ayón Rivas, G. Buratto/R. Dal Zovo, C. Topciu; Orchestra e Coro del Teatro Regio, direttore Renato Palumbo regia John Turturro scene Francesco Frigeri costumi Marco Piemontese
Torino, Teatro Regio, 14 e 17 febbraio 2019
Sul numero di febbraio di MUSICA si era dato conto del fatto che la stagione del Regio di Torino, dopo un avvio faticoso, aveva iniziato l’anno con ritrovata serenità per presenze e fiducia verso la nuova gestione. Ma proprio su quest’ultimo profilo, mentre le note di Rigoletto echeggiavano ancora nella sala di Mollino, la situazione ha fatto registrare un vistoso passo indietro. Il tanto atteso piano di risanamento e rilancio del teatro, steso sotto la guida del bocconiano Guido Guerzoni, è finalmente arrivato. Il Consiglio di indirizzo ne ha approvato le linee guida, giudicando però irrealistici gli obiettivi di ricavi, accompagnati dall’ambizioso traguardo di condivisione dello status attribuito dal Fus alla Scala e a Santa Cecilia. Limitandosi alle notizie di stampa, non mi è parso di cogliere indicazioni in merito alle scelte artistiche di medio-lungo periodo. In compenso, è la figura del sovrintendente William Graziosi ad essere stata presa di mira, circa i rapporti con il mondo delle agenzie. L’aggiornamento sui conti dovrebbe arrivare entro marzo e quindi se ne riparlerà a tempo debito. Per ora ci si può occupare del nuovo Rigoletto che il Regio ha coprodotto con altri teatri, che ha fatto registrare notevole interesse, con recite sempre affollate, grazie anche alla visibilità che è stata data al nome di John Turturro che ne ha firmato la regia. A Palermo in ottobre, dove era stato presentato, lo spettacolo aveva ricevuto riscontri critici non particolarmente generosi. A Torino, invece, ha funzionato bene, all’insegna di una concezione che si concessa qualche libertà riuscendo però a farsi percepire dal pubblico come tradizionale. In conferenza stampa, a fronte della domanda di quanto il cinema avesse influenzato questa suo primo approccio all’opera, Turturro ha ricordato di essere altresì uomo di teatro. Anche Francesco Frigeri, autore delle scene, deve la sua fama principalmente al grande schermo. Tuttavia questo Rigoletto, dalla cornice iniziale che richiama la Sala dei Giganti di Giulio Romano del mantovano Palazzo Te, alle prospettive oblique delle pareti del palazzo ducale così come alla claustrofobica casetta che rinchiude Gilda che si capovolgerà in sghemba osteria nel terzo atto, non ha molto di cinematografico. Piuttosto, attinge qua e là, assemblando con intelligenza del tutto teatrale elementi manieristi, barocchi ed espressionisti, divertendosi anche a invadere il minuscolo spazio della figlia del gobbo con un sontuoso e improbabile letto “impero”. Negli esterni, affiora il simbolismo, come in quella fessura del fondale incapace di vincere la malsana coltre nebbiosa che tutto avvolge se non all’ultimo, quando il sacrificio di Gilda in nome dell’amore sarà trasfigurato in un’abbagliante chiarore. Né manca qualche richiamo alle fiabe cattive e al sovrannaturale, quando misteriose nere figure striscianti nel buio sembrano fare da motore al fatale delitto. Grazie anche alle belle luci radenti e livide (di Alessandro Carletti), ai grevi e preziosi costumi (di Marco Piemontese), questo Rigoletto ha trovato la giusta atmosfera, soffocante, cupa, deformata, malata di inguaribile disumanità, corruzione, sadismo, viltà e dissennata ansia di vendetta. Solo Gilda non è di quel mondo, naturalmente, e se ne può accettare la condizione di eterna fanciulla nella quale il padre la vorrebbe invano bloccare, raffigurata da una sontuosa candida veste che, con gesto eloquente di significati, lei stessa schiuderà al termine di «Tutte le feste», rivelandone altra sottostante color rosso vivo. La sensazione è che questa produzione sia frutto di un buon lavoro di squadra: Turturro, oltre che nei collaboratori citati, ha avuto un valido supporto in Cecilia Lagorio per la sobria cura del gesto e degli equilibrati movimenti scenici. Poco è sembrato veramente discutibile o superfluo. Direi la scena del rapimento, unico momento risolto con artificio vagamente cinematografico: Rigoletto resta bendato a proscenio, mentre i cortigiani e la casa sprofondano rapidi verso il buio del fondo scena, con il risultato che la crudeltà della beffa prescritta dal libretto si perde. Oppure una certa invadenza dei pur eleganti movimenti coreografici (di Giuseppe Bonanno), per esempio nella pantomima che accompagna, distraente, l’insopportabile cinica leggerezza del racconto dei cortigiani al Duca.
Nel complesso, peraltro, la continuità drammaturgica pensata da Verdi per quest’opera è parsa ben servita sul piano visivo, il che avrebbe fatto desiderare che anche sul fronte musicale si procedesse parimenti. Non è stato così, ed è un peccato. È chiaro che mi riferisco alla possibilità di adottare l’edizione critica realizzata da Chicago da Martin Chusid, risalente ai primi anni ’80, dunque già con una nobilissima “tradizione” alle spalle, che non ha impedito all’altra “tradizione” (quella dettata da un’ ultra secolare prassi esecutiva) di continuare tranquillamente a vivere, addirittura in posizione dominante. Per carità, la partitura rivista da Chusid non va brandita come le tavole della legge (il pensiero va a Muti). Il tema dell’autenticità, del rispetto dell’originale va toccato senza fideismi. Ma nel caso di Verdi e di Rigoletto le testimonianze dirette autorali sono tante e inequivocabili, oltre che suffragate dalla sconvolgente forza espressiva che questo capolavoro sa offrire ogniqualvolta venga proposto ripulito dalle non previste né tanto meno auspicate componenti di sapore che mi sentirei di definire circense, introdotte nel corso del tempo a beneficio di ugole d’oro ma fatte proprie, purtroppo, di molte altre di materia assai meno pregiata. Dunque, se è pur vero che c’è libertà di scelta, è altrettanto vero che per Rigoletto più ancora che per altre opere, in occasioni di non pura routine come questa, sensibilità e responsabilità dovrebbero indurre il direttore almeno a dare segni di riflessione sulla questione. A differenza di quanto accaduto a Roma di recente con Daniele Gatti (che ha optato, motivando, per l’edizione critica), così non è stato né a Palermo (con Ranzani) né ora a Torino, dove il podio è stato assegnato a Renato Palumbo. Quindi, con buona pace di tutti (critica compresa, per quel che mi è stato dato di cogliere), questo Rigoletto si è fregiato di ogni cadenza e acuto non scritto, con l’aggiunta di scelte agogiche talora incongrue, in quanto troppo serrate (il primo duetto fra Rigoletto e Gilda, l’intera scena del «Cortigiani», per giunta caratterizzata da un turbinio dello strumentale talmente pesante da costituire un problema anche per voci di ferro). Una veemenza e concitazione di fondo che ha se non altro garantito al dramma una certa ruvida tensione, con alcuni momenti, a dire il vero, adeguatamente sbalzati, quali il duetto con Sparafucile e la seconda aria di «Gilda», animata in modo palpitante, senza quell’inerzia di andamento che spesso la impoverisce.
Due compagnie si sono alternate, in entrambi i casi con un protagonista di rilievo. Carlos Álvarez è noto per la rara qualità dei mezzi, l’impeccabile correttezza d’emissione, l’eleganza della linea, il gusto e la musicalità. A queste doti si aggiunga una forza d’interprete che in prove passate era parsa meno evidente e si avrà un’idea di questo suo magistrale Rigoletto. Poco importa che nel ricorso alla mezzavoce sia cauto se, lavorando sull’accento e sul colore, nulla ha lasciato a desiderare, nel declamato come nel cantabile o nelle situazioni di maggior peso drammatico, rese con una potenza di suono quasi insospettata in lui (e, visto che gli acuti erano previsti, ben venga che siano proiettati con tanta perentorietà e sicurezza). In altre parole, una caratterizzazione di straordinario impatto scenico e vocale, un misto di ansia e rabbia che gradatamente crescono fino a sfociare in una devastante follia, che oggi credo possa trovare pochi confronti. Gli ha fatto da degno contraltare il giovane Amartuvshin Enkhbat, trentaduenne baritono mongolo di cui molto si parla. Non a torto, perché la voce è ragguardevole sotto ogni profilo, ben impostata e corredata da una dizione encomiabile. In questo caso, un Rigoletto non troppo sfaccettato sul piano psicologico, costruito secondo schemi più di maniera, ma solido e plausibile. In generale, le potenzialità per un’evoluzione artistica importante ci sono tutte. Si vedrà. Gilda si è valsa delle voci di Ruth Iniesta e Gilda Fiume, entrambe adeguate. Più diseguale il soprano spagnolo, per quanto espressiva e timbricamente personale, mentre l’italiana (nonostante l’indisposizione annunciata) ha messo in evidenza un’organizzazione vocale più completa per la parte, in termini di agilità, purezza strumentale, estensione (anche nel grave, con un’efficace resa di certi passi, specie nell’atto conclusivo). La serie tenorile non troppo felice che sembra affliggere il Regio in questa stagione ha trovato conferma anche nel Duca approssimativo e tutto di spinta di Stefan Pop, a fronte del quale ha potuto brillare il ventiseienne peruviano Iván Ayón Rivás, voce piccola ma lucente, usata a volte temerariamente (l’avventuroso Re della cabaletta), più spesso con baldanza e grazia (il cesello, appassionato e seduttivo, di «È il sol dell’anima»). Affinandosi, anche di lui si sentirà parlare. Infine, al di là dell’ordinario, Gianluca Buratto e Alessio Verna hanno reso giustizia alle ragioni della corda di basso, rispettivamente come Sparafucile e Monterone.
Giorgio Rampone