VERDI Nabucco R. Burdenko, M.J. Siri, R. Siwek, C. Ventre, E. Hasan, C. Saitta, C. Collia, E. Zizzo; Orchestra e coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, direttore Daniel Oren regia Giancarlo Del Monaco scene e costumi William Orlandi
Trieste, Teatro G. Verdi, 22 marzo 2024
È incredibile la forza di rigenerazione simbolica di Nabucco nell’arco della storia. E proprio a Trieste assume evidenza esemplare. Oggi, nell’ascoltare Roman Burdenko (protagonista mirabile di questa edizione) cantare “In mar di sangue fra pianti e lai / l’empia Sionne scorrer dovrà”, Nabucco sembra inquietamente attualizzarsi nella cronaca della nostra epoca “trista”. Ieri erano ardori risorgimentali come per Ernani all’inizio di Senso di Visconti. E chi come me conserva remota memoria del Nabucco con Carlo Tagliabue andato in scena al Verdi nel dicembre del ’47, non può non provare un brivido all’immagine di quel teatro gremito all’inverosimile, ribollente come una caldaia a rischio di esplosione in una serata che la storia letteralmente la scrisse, se è vero che fu proprio l’eco clamorosa di quell’edizione ad influire sulla nota tripartita, sui governi e sui destini della città per la quale la guerra non era ancora finita.
Di risorgimentale rimane nell’attuale produzione (l’allestimento proviene dall’Opera di Zagabria) la visione quarantottesca di Giancarlo Del Monaco entro la funzionale muraglia scenica di William Orlandi sulla quale Nabucco in sembianze guerresche, ritto sull’affusto di un cannone, irromperà, sfondando le difese di polistirolo e rivelando singolare somiglianza con Francesco Giuseppe (favoriti compresi) accompagnato da uno stuolo che richiama un po’ il reggimento della Fille donizettiana disegnata da Zeffirelli. È una messinscena contemporanea alla creazione dell’opera secondo una prassi consolidata almeno dai Vespri siciliani con la Scotto nei primi anni settanta. Qui però si preferisce il vuoto al pieno, la staticità all’introspezione drammaturgica. Dove non soccorre neppure una spettacolare invenzione luministica. Del resto frenata dal frequente calar di sipario come in una sequenza di tableaux. Di positivo l’onnipresenza del protagonista “prigione” anche nella scena degli ebrei: destini condivisi dei “vinti” che si sommano nella pietas. Su questo versante la sensibilità e la sapienza di concertazione di Oren sono infallibili nell’esaltare le dinamiche e lo spirito del giovane Verdi: il coro e l’orchestra scattante(alla quale si aggiunge la civica orchestra di fiati) lo seguono con una rara intensità e ricchezza di tinte e nervature. A voler ritagliare un solo esempio, basti lo stesso “Va pensiero” che nella direzione di Oren si carica sempre di una particolare, struggente delicatezza come il disegno degli strumentini che ne raccoglie davvero l’anima. Una volta sarebbe venuto giù il teatro. L’altra sera è parso che l’ovazione fosse contenuta e inadeguata, sicché lo stesso Oren (che ricorda trionfi ben più reboanti al Comunale di Trieste) ha preso in mano la situazione, si è trasformato in claqueur ed ha imposto (a coro schierato a proscenio) il bis del “Va pensiero”. Virando al caloroso un successo che nel primo atto era scivolato via cordialmente senza un applauso a scena aperta. Certo non sono, i nostri, tempi di grandi passioni. Il pubblico attuale dei teatri lirici non conosce in fondo le grandi passioni o vi ha perso l’abitudine. Perché questa edizione, per le egregie cose musicali esibite, è un Nabucco di prim’ordine: mobilissimo nella direzione, incisivo in tutti i settori. Con un protagonista di grande personalità nell’omogenea estensione della voce, nell’accento, nel fraseggio, nella presenza scenica. Burdenko (di cui si era ammirata a Salisburgo la profondità del Michele del Tabarro) offre infatti di Nabucco un’interpretazione imperiosa e toccante. Passata ai perigli del “drammatico d’agilità”, Maria José Siri conserva la bellezza dello smalto anche nei vertiginosi sbalzi a punta di diamante propri di questo grande archetipo di donne “cinte di ferro il seno”. Nel quarto atto Abigaille, si sa, subisce una improvvisa trasmutazione. Ma quella che si è svelata al pubblico della “prima” è parsa addirittura strabiliante. Si è saputo dopo che, per un malessere improvviso, la Siri, con cambio volante, aveva ceduto l’assisa alla collega russa del cast alternativo Olga Maslova. Voce interessante e cospicua quella del polacco Rafal Siwek, Zaccaria, che nello spettacolo appare più capopopolo che pontefice. Ancora sorprendente e poderoso lo squillo del tenore Carlos Ventre (Ismaele), quasi esordiente trent’anni fa al Verdi. Con la soave Fenena della azera Elmina Hasan, puntuale la corrispondenza negli altri ruoli di Cristian Saitta, Christian Collia, Elisabetta Zizzo. A meritare le numerose chiamate ed il riacceso ardore di consenso.
Gianni Gori