DONIZETTI Anna Bolena A. Meade, N. Ulivieri, S. Ganassi, J. Osborn, M. Comparato, R. Maietta, M. Pierattelli; Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice, direttore Sesto Quatrini regia Alfonso Antoniozzi scene Monica Manganelli costumi Gianluca Falaschi
Genova, Teatro Carlo Felice, 20 febbraio 2022
È finalmente approdata al Carlo Felice la «terza puntata» (a ritroso nell’ordine di composizione) del donizettiano Trittico delle Regine. Questa Anna Bolena infatti avrebbe dovuto seguire a stretto giro il Roberto Devereux del 2016 e la Maria Stuarda del 2017: già andata in scena al Regio di Parma (teatro che coproduce l’allestimento) nel gennaio di quell’anno, il suo inserimento nella stagione genovese è stato poi rinviato via via, in ultimo anche per gli eventi pandemici. A un secolo e mezzo dall’ultima rappresentazione nel capoluogo ligure, giunge ora a destinazione sulle ali di un cast in grado di render ragione a quest’opera impegnativa, cruciale nell’itinerario donizettiano. Eroina dell’evento — si può davvero ben dire — è stata la Bolena di Angela Meade: il medium corposo e pregevole, il ragguardevole registro grave, ma anche l’accento e il puro impatto vocale le hanno consentito di trasmetterci non soltanto l’aspetto «angelico» di Anna, ma anche il suo orgoglio e la sua altezza morale, in momenti come un incisivo (ma per nulla scomposto) «Giudici!.. Ad Anna!» o nelle mille sfumature di sdegno e delusione del duetto con Giovanna. Se nel duetto con Percy invece la Meade non ha saputo emulare il tenore per sfumature dinamiche ed espressive, e se qualche sovracuto è risultato un poco fibrillante, vanno tributati comunque tutti gli onori alla resistenza anche fisica del soprano statunitense, che si è fatto carico di tre rappresentazioni consecutive in altrettanti giorni, a causa della forzata defezione della seconda copertura; e per giunta nella terza recita, di cui vi relaziono, ha portato a termine l’opera nonostante una caduta al suo ingresso nella sesta scena del secondo atto. Dopo una breve interruzione, pur limitata nei movimenti, la Meade si è ripresentata in palcoscenico, cantando benissimo anche nell’impegnativa scena finale, e riscuotendo una meritata acclamazione.
Accennavamo alla prova di John Osborn, che ha ripensato completamente la parte di Percy, permeandola di tenerezze, slanci, disperazione, arricchendola di infinite inflessioni vocali ed espressive. L’operazione è risultata avvincente nel duetto con Anna, dove gli è mancata solo l’intima seduzione del timbro; più controversa nella cabaletta del primo atto e soprattutto in una «Vivi tu» inusualmente introspettiva, dove il tenore cinquantenne ha esercitato le sue mezzevoci all’estremo, fino alla stravaganza, fino all’incrinatura per mancanza di sostegno. Tuttavia il tenore americano ci ha suggerito come pochissimi altri in passato la fisionomia che Giovanni Battista Rubini potrebbe avere imposto al ruolo in quel 1830; leggendaria malìa timbrica a parte, dato che Osborn non può certo disporre del puro fascino sensuale di un Raimondi (ma quello era quasi un altro Riccardo!) o di un Meli.
Sonia Ganassi impersona Giovanna Seymour sin dagli anni novanta: si tratta di un ruolo con cui appare aver raggiunto una totale identificazione, e di cui ci sa trasmettere pienamente tormenti e rovelli, anche se la rotondità vocale non è più quella d’un tempo. Nicola Ulivieri ha disegnato, soprattutto nel primo atto, un Enrico mosso non da puro istinto predatore, ma da inquietudine e da una sorta di intima disillusione: il cantante arcense ha risposto adeguatamente alla non comoda tessitura, che impegna anche il registro più propriamente baritonale. Marina Comparato ha proposto con notevole precisione la parte di Smeton, anche se non ha saputo suggerirne pienamente il carattere adolescenziale; Manuel Pierattelli ha conferito ad Hervey uno smalto inusuale, e se a Roberto Maietta (Rochefort) non è toccato in sorte un timbro privilegiato, il cantante compensa in virtù di un’apprezzabile eloquenza.
Sesto Quatrini ha dimostrato di conoscere profondamente la partitura e di saper ottemperare sia alle specificità della scrittura vocale (in particolare nei concertati: vedi un «Io sentii sulla mia mano» ricco di incanto) sia ai preziosi ornati strumentali, a cui l’orchestra genovese ha risposto adeguatamente, pur con qualche occasionale, rara imperfezione; ottimo l’impatto del coro, nonostante la mascherina d’ordinanza. L’allestimento, infine, si imperniava su una struttura centrale analoga a quelle già viste in Devereux e Stuarda, mescolando con disinvoltura Cinquecento e Novecento: ne è risultato uno spettacolo un po’ grigio, non solo cromaticamente, e non sempre in grado di sbalzare drammaturgicamente i vari episodi in cui è frammentata l’opera (ad esempio l’ampia scena-chiave in cui Enrico sorprende Percy e Smeton assieme alla Regina). Un pubblico un po’ più numeroso rispetto ai titoli precedenti ha accolto con calore lo spettacolo e, come detto, in primo luogo la protagonista.
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli