PAISIELLO Zenobia in Palmira L. Cortellazzi, R. Savoia, T. Langella, S. Ciani, R. Bove, B. Nacoski; Orchestra del Teatro S. Carlo, direttore Francesco Ommassini regia, scene e costumi Riccardo Canessa
Napoli Teatro di corte di Palazzo Reale, 18 maggio 2016
Napoli non si mostra ingrata con i suoi figli più illustri. Non poteva così certo dimenticare il bicentenario della morte (1816) del tarantino Giovanni Paisiello, rampollo dell’ultimo luminoso crepuscolo della gloriosa scuola musicale partenopea del Settecento. Due mostre documentarie, una al Conservatorio di S. Pietro a Majella e l’altra al Palazzo reale, ne ricorderanno la figura e l’opera. Il Teatro San Carlo, storico decano delle Fondazioni liriche italiane in attività, chiama e Napoli risponde. Sei recite al suggestivo Teatrino di corte di Palazzo Reale hanno difatti registrato il sold out in forte anticipo. E nella prossima stagione spuntano in cartellone i nomi di Leonardo Vinci (Siroe), di un Cimarosa comico (Chi dell’altrui si veste presto si spoglia) e di Leonardo Leo (L’Olimpiade).
Se al Massimo di Catania mesi fa si è resuscitata la Fedra, a Napoli un pubblico selezionato si è goduto la Zenobia in Palmira, andata per la prima volta in scena per l’onomastico di Re Ferdinando IV al Teatro San Carlo il 30 maggio del 1790, ovvero all’indomani dello scoppio della Rivoluzione parigina, quando Mozart non era ancora morto e Rossini non era ancora nato. Il libretto dell’abate Sertor in verità non è di quelli che fanno gridare al capolavoro ed è anzi pieno di luoghi comuni già sin nell’intreccio: l’imperatore Aureliano si innamora della sua aspra nemica Zenobia, regina dei Palmireni, ma questa ovviamente ha nel cuore il principe persiano Arsace, di cui però è invaghita anche Publia, la giovane figlia dell’imperatore Gallieno. Dopo tanti spasimi d’amore e, soprattutto, dopo il tentativo sventato di suicidio da parte di Zenobia, e dopo qualche bel duetto tra gli amanti Aureliano, come l’anno successivo il Tito mozartiano, si dimostra clemente come il suo rango morale richiede e concede la regina di Palmira al suo spasimante persiano, dando prova di una nobile rinuncia.
L’opera però si illumina musicalmente soprattutto grazie al genio paisielliano che, dopo una sinfonia quasi mozartiana per temi e uso dei legni, la infarcisce di arie espressive, magnifici duetti ed un terzetto di grande bellezza musicale.
L’allestimento si affidava ad una sobria ma efficace regia di Riccardo Canessa, costretta negli angusti spazi scenici del Teatrino di corte. Nella staticità scenica, pari a quella drammaturgica tardobarocca, si imponevano poi sul fondo le proiezioni video di Alfredo Troisi che evocavano soli radianti, cieli sereni o solcati da nuvole minacciose, prue di navi o panorami al chiaro di luna. In questo tipo di opere eroiche c’è, vocalmente parlando, gloria per tutti, principali e comprimari, ed il giovane cast non ha certo demeritato sotto la guida attenta del giovane Ommassini. I tre ruoli principali (il tenore Leonardo Cortellazzi come Aureliano, il soprano Rosanna Savoia come Zenobia e Tonia Langella come Arsace) sono apparsi in crescendo, mentre hanno ben meritato e convinto in tutta la gamma Sonia Ciani (Publia) e Rosa Bove (il generale Oraspe). Fu forse il successo dell’Aureliano in Palmira di Rossini (1813) a condannare al dimenticatoio questo pregevole lavoro paisielliano sullo stesso soggetto. Un valore aggiunto viene a questa prima ripresa moderna napoletana dalla dedica all’archeologo siriano Khaled al-Asaad, per quaranta anni direttore del sito archeologico di Palmira, ucciso dall’Isis nell’agosto scorso. È anche questo un modo di ricordare e mantenere viva la memoria. Un modo alto di fare musica.
Lorenzo Tozzi