ROSSINI L’Italiana in Algeri G. Arquez, C. Lepore, E. Kamani, S. Stoyanova, G. Mastrototaro, M. Mironov, R. De Candia; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Ottavio Dantone regia, scene e costumi Jean-Pierre Ponnelle (ripresa da Grischa Asagaroff)
Milano, Teatro alla Scala, 10 settembre 2021
Non vorrei ripetermi, né citare quanto scrissi lo scorso giugno (vedi qui) in occasione della ripresa delle Nozze con la regia di Strehler, ma è la programmazione stessa della Scala a far riaffiorare ogni volta il problema: uno spettacolo che diventa — con merito — un “classico” può mantenere la sua forza espressiva, la chiarezza del proprio messaggio, può interagire con il pubblico nello stesso modo dopo decenni? Se la risposta nel caso dell’opera mozartiana fu un “no” secco, parlando dell’Italiana (ma lo stesso identico discorso vale anche per Barbiere e Cenerentola) di Ponnelle, che vide la luce il 7 dicembre del 1973, non possiamo che trarre le stesse conclusioni. Eppure farei qualche distinguo. Lo spirito “geometrico” di questo spettacolo, la sua eleganza visiva che quasi mai diventa affettata (e il paragone con un altro spettacolo di ambientazione “turchesca”, ossia il Ratto di Strehler, è — spiace dirlo — impietoso), la perfetta aderenza ai ritmi interni della musica è tutt’ora piuttosto efficace: certo, più nei concertati e nei numeri d’assieme che in quelli solistici, ma la grande novità dell’Italiana rispetto al teatro comico ad essa antecedente fu proprio nella sempre maggiore importanza ad essi conferita. Insomma, l’idea astratta e quasi “meccanica” che Ponnelle sottolineò nel teatro di Rossini funziona ancora oggi, benché ovviamente il pubblico sia molto cambiato, la Rossini-renaissance abbia mutato completamente la visione che abbiamo del Pesarese e — cosa da non trascurare — i lazzi, i frizzi, i gesti, le idee ponnelliane siano state riciclate e imitate in maniera costante e spudorata da troppi registi di seconda e terza mano: né noi, ovviamente, possiamo attingere veramente alla fonte, dovendoci accontentare delle riprese fatte da altri, con qualità variabile (alla Scala era firmata Grischa Asagaroff). Per ora ci “turiamo il naso”: ma dopo il nuovo Barbiere a firma Leo Muscato, sarebbe ora di rompere il tabù ponnelliano anche per gli altri due titoli della trilogia.
Dal punto di vista musicale, una aurea mediocritas: Dantone dirige con molto senso del ritmo, qualche problema di equilibrio (nell’ouverture gli archi erano schiacciati da ottoni e percussioni) e soprattutto con ben pochi colori, in un bianco e nero che alla lunga annoia, nonostante qualche zampata di grande effetto (ad esempio il ritmo indiavolato dell’ostinato orchestrale nel coro “Quanta roba”): ma finché le orchestre saranno costrette a suonare in queste disposizioni insensate e impraticabili, con quei distanziamenti che poi scompaiono una volta che i professori vanno a cambiarsi e magari a mangiare insieme (si sa, il virus ama i teatri, e poi l’Italiana è particolarmente a rischio, visto l’abbondare di “Eccì”….), ogni giudizio rimane molto relativo. Il cast vedeva primeggiare lo stilosissimo Lindoro di Maxim Mironov, che gestisce come meglio non si potrebbe, a livello tecnico e stilistico, una voce che purtroppo in natura è piccola e dai pochi colori; a simile livello si pone Roberto De Candia, che è un ottimo Taddeo, stralunato e surreale quanto basta; e se Carlo Lepore “tira” il ruolo di Mustafà più verso il basso buffo che il grande basso cantante cui spetterebbe, lo fa con grande carisma, un canto di qualità e una personalità strabordante. Giulio Mastrototaro è un Haly di Lusso, mentre le due donne (Enkeleda Kamani come Elvira e Svetlina Stoyanova come Zulma) si disimpegnano con onore. Resta l’Isabella di Gaëlle Arquez, debuttante nel ruolo e alla Scala: ha una bella figura, è ironica, efficace nei recitativi e regge bene il palcoscenico, ma la sua voce di mezzosoprano acuto è poco compatibile con la tessitura contraltile di Isabella, mentre la coloratura è lungi dall’essere inappuntabile. Una protagonista, in definitiva, scipita e che non lascia molta traccia.
Applausi sinceri da parte dei 900 spettatori ammessi nel Tempio: ora si aspetta che il Ministro, finalmente destatosi dal torpore, riesca ad ottenere quella piena capienza già praticata in quasi tutta Europa.
Nicola Cattò
Foto: Brescia / Amisano – Teatro alla Scala