VERDI Simon Boccanegra (I. versione, 1857) V. Stoyanov, R. Mantegna, R. Zanellato, P. Pretti, D. Cecconi, A. Gramigni, C. Guerra; Coro del Teatro Regio di Parma, Filarmonica Arturo Toscanini, direttore Riccardo Frizza regia Valentina Carrasco scene Martina Segna costumi Mauro Tinti luci Lodovico Gobbi
Parma, Teatro Regio (Festival Verdi), 14 ottobre 2022
1857: un anno strano, a guardar bene, per Verdi. La sua inarrestabile “ascensione creatrice”, come la chiamava il Roncaglia, che si sarebbe conclusa con la coppia disomogenea di Otello e Falstaff, sembra segnare il passo, ripiegando, per rifiatare senza fermarsi, nel travaso di un’opera senza dimani (lo Stiffelio) in una fatta solo di “ieri” (l’Aroldo) e nell’approntamento di un’altra malfatata, che il Maestro stesso giudicò zoppa: il primo Boccanegra veneziano. Verdi, nonostante l’apparente sicurezza e la solita frusta che fa schioccar sulle spalle del malcapitato Piave, librettista designato, è svogliato. Nota l’Abbiati che il Maestro nulla fa se non girar pe’ campi di Sant’Agata ad ammirare il frumento, per le sue stalle a carezzar le vacche gravide e a bersi l’ovino fresco, preso «di volo con un pizzico di sale e disciolto in un gotto di ‘malvasia’, così buona quando è buona e così bella nel trasparente colore d’ambra». Perdurava il mal di stomaco dei Vêpres e della Traviata, ma soprattutto, Verdi (è sempre Abbiati che scrive) «cercava di allontanare da sé l’amaro calice dell’opera promessa alla Fenice: la sua testa era come un papavero sgranato».
Il musicista doveva essersi presto reso conto che il dramma di Gutiérrez — al quale si era rivolto nell’intenzione di rinnovare il clima tragico e allucinato, il “medioevo fantastico e ferrigno” (M. Pieri) del Trovatore — non possedeva, di quello, la vampa bruciante e romanzesca che ne colorasse teatralmente, melodrammaticamente, le “fosche, notturne spoglie de’ cieli”, la trama noir, il lineare svolgersi della tragedia. Il Simón di Gutiérrez è, in effetti, complicato e il libretto del Piave s’imbroglia in “abborracciature che superano in balordaggine quelle del Trovatore” (così Filippi, critico severissimo della “Perseveranza”, l’indomani della prima): come è stato osservato (Verdi: l’immaginario dell’Ottocento, 1981) «queste incongruenze, ma poi, nemmeno incongruenze, queste quadrature, queste corrispondenze manieristiche, e questi personaggi che non sono un destino, e nemmeno un simbolo, solo delle funzioni mutevoli alle esigenze della scena e alla astratta dialettica dei colori vocali, mettevano ancora addosso, vent’anni e passa dopo, quand’ebbe l’incarico da Verdi di rimettere in equilibrio quel tavolo zoppo, perfino a Boito una matta, non troppo dissimulata allegria: vedi le lettere del Boito a Verdi, per quella congiuntura».
Oggi che, recuperato Stiffelio, non di rado se ne preferisce l’originale manierismo al crudo, ma più melodrammaticamente “normale” romanticismo di Aroldo; oggi che vediamo nella seconda Forza del destino quasi solo un livellamento a’ buoni costumi cattolici d’Italia, sostanzialmente in perdita rispetto alla tragedia totale della versione pietroburghese, nei due Macbeth troviamo quasi due opere diverse e alternative, in fondo equivalenti per valore; oggi ci riesce difficile, a non dire impossibile, valutare la “cinquantasettana” del Boccanegra senza considerarla alla luce abbagliante del rifacimento 1881. Le ragioni non mancano, ché il maestro, rimettendoci le mani, quel tavolo zoppo non si limitò a metterlo in equilibrio, ma ne creò un supremo ed originalissimo capolavoro, seppure anch’esso dovette aspettare quasi tre quarti di secolo per vedersi riconosciuto tale anche nella realtà degli allestimenti scenici. Un capolavoro che, per novità della costruzione teatrale, della linea del canto ripulita dai cinguettistici orpelli che ancora appesantivano l’edizione veneziana dell’opera, per la costruzione a grandi pannelli, ora intimi (tutto il prologo, con quella formidabile intuizione notturna e silenziosa, rotta solo dal conclusivo “Viva Simon!”, la catena di duetti al prim’atto, gli incontri quasi furtivi tra padre e figlia nel terzo, eccetera), ora corali e grandiosi, per quelle sonorità taglienti che lo traversano da cima a fondo, il colore livido a contrasto degli idillici panorami evocati dalle marine, dalle brezze, dalle memorie addolcite, apparentano il secondo Simone in vincolo strettissimo ai capolavori futuribili del tardo Liszt (devo l’acuta intuizione a Luigi Abbate, compositore ed educatore di compositori, intellettuale di rara finezza, incrociato nel foyer del teatro parmigiano, nella pausa di questo rinnovato Simone primo).
Però sarà bene chiarire — e le riuscitissime rappresentazioni parmigiane stanno lì a confermarlo — che la tristaniana “lussuria del dissolvimento”, com’è stata definita, che avvolge il musicista e la sua opera, l’«intuizione morale, e cromatica», il «significato dei personaggi e della assurda storia» sono già interi nella prima versione. Boito ebbe il merito di congegnare il formidabile quadro del Consiglio, imponente quanto una tela del Veronese, rottura di ogni precedente convenzione teatrale, lucido edificatore in versi di quanto, all’opera, era stato fin lì talora desiderato, qualche volta tentato, accennato, sperato, senza mai il coraggio di realizzarlo fino in fondo: un quadro ‘realistico’ che alla potenza scenica della scena di massa unisca il filo drammatico del dialogo, aperto o sommesso, delle singole voci; una scena in cui la vicenda si costruisca e si dipani, senza bloccarsi nel sonoro fermo-immagine da figurina Liebig (altrove, in Verdi, era stato proprio il corto circuito tra immobilità del canto, non metafora del parlato, in quel caso, ma canto reale, procedere drammatico degli accadimenti a portare ad incandescenza la tensione non solo musicale: dico il finale secondo del Macbeth, col Brindisi che ripiglia ostinato ad ogni apparizion di fantasima, a distorre dalla turbe del tiranno prostrato dalle oscure forze delle parche). Ed al librettista aggiunto, nel Simone, il buco venne certamente più perfetto che — trascrivo le emersioni dai Palinsesti verdiani (Ut Orpheus, 2017) — nel «macchinoso concertatone dell’Otello, sul quale a Verdi stesso (per la première parigina del Moro) vennero dei ripensamenti e degli imbarazzi, e la gran voglia di toglierlo via». Per il resto Boito, tentandone un perfezionamento, non riuscì che in parte a dar completezza al personaggio di Paolo Albiani, uscito mutilo nonostante Verdi, fin da sùbito ne avesse sottolineato l’importanza. Né Boito — poeta aduso a viziare le situazioni per “educata ingordigia di parole”, anziché mettere queste al servizio delle situazione, in ciò l’esatto opposto del derelitto Piave –, seppe fare a meno del suo campionario di pompose scempiaggini o – come fu scritto – di “tutta una enigmistica melodrammatica”, che qui chiama in causa il “Romito di Sorga”, là – nell’Otello – sposi “giocondati” (e stupite poi che la strozzi?) vili cortigiane ed ammennicoli varî, che Verdi, non capirò mai come, gli lasciò passare. Si disse che Verdi si “appoggiasse volentieri ai letterati… o… ai librettisti più reputati” quando si sentiva mancare sicurezza. “Chiaro che tende a scaricare su di loro una parte di responsabilità”.
Responsabilità che nel caso del primo Simone era, in definitiva, quasi tutta sua, di Verdi, della sua musica. Che molto già intuiva (vedi il canto prosastico per la morte poeticissima del Doge, agonizzante già prima d’avvelenarsi), ma non sapeva risolvere, ancora abbarbicata alle colorature trobadoriche e al tradizionale andamento cadenzante di quei melodrammi; che in nessun altro luogo verdiano dà, come qui, viziato dal senno di poi, il sentimento di lungaggine, d’orpello vacuo, di stilema tralatizio: uno stile di canto che guarda troppo al passato, anche lontano, coi rigurgiti perfino del lontanissimo Ernani che più d’una volta rifluiscono, e che quando guarda avanti, oggi ci appare, con inevitabile imbarazzo, tutt’al più un cartone del Ballo in maschera a venire. E sono i motivi, credo, che portarono alla sostituzione del duetto tra Fiesco e Adorno, al prim’atto, che nella versione veneziana, con la sua evidenza politica e complottista, ha molta più attinenza al dramma (anche nel chiarir le parti dei due ribelli) del rimpiazzo, tutto idillio familiare, partorito da Boito: ma la musica dell’originale stava troppo a mezzo tra, appunto, l’Ernani (il patto tra Silva e il Bandito, all’inseguimento del Re “rapitor di fanciulle”, in anticipo sul Lorenzino genovese) e il giuramento dei Frati introduttivo della vergine (absit iniuria eccetera) degli angeli nella Forza, nel 1881 ormai nota anche ai milanesi.
La riprova teatrale, onorata da uno spettacolo che “ci credeva”, ha mostrato palesi, coi limiti originali e accumulati dai casi della storia, anche i valori dei quest’opera negletta, apparsa non indegna di figurare accanto alla sua illustre derivata. Se Verdi stesso lamentò l’eccessiva desolazione dell’opera, essa ci è apparsa ora come un formidabile, commovente tratto di novità.
I primi complimenti per la riuscita vanno al maestro Frizza, la cui concertazione (come si intendeva un tempo, cómpito primo del direttore d’orchestra in un’opera) mostrava l’impronta nitida nella guida dei singoli cantanti, nell’impegno loro richiesto a curare le arcate di fiato, talora severissime, che Verdi sovente qui richiede, pretese quasi astratte, a volte, ma difficilmente aggirabili, senza nocumento della linea e dell’effetto musicali. Splendidi certi stacchi di tempo (penso alla difficile cabaletta dei due amanti, al prim’atto, un altro dei pezzi più tardi espunti) ed alcuni colori orchestrali, dagli impasti rari e stravolgenti (per tutti: il flauto che si staglia livido sull’orchestra nelle battute finali dell’opera, in controcanto alle campane). Impetuoso e carezzevole, secondo i luoghi, direzione esemplare di un’opera, come da decennî non c’era più capitato d’ascoltare. Roberta Mantegna è una benedizione per gli orecchî, col suo timbro luminoso, il canto flessibile, morbido, l’accento incandescente (e non solo l’accento, certi acuti estremi parevano saette), straordinaria a ridare nobiltà, con la sua presenza vocale, a un personaggio gravemente frainteso dalla regià (sconcertante l’apparizione in guisa di campagnola, in un container con fiorito giardinetto). Così come penalizzato risultava Fiesco, tetragono nella sua orgogliosa presunzione aristocratica, ridotto a impiegatizio borghesuccio: facile immaginare la difficoltà di restituirgli dignità, che Riccardo Zanellato ha però superato da quell’artista magnifico che conosciamo, naturalmente nobile nel fraseggio e nell’arcata del canto di cui ancora una volta abbiamo potuto godere. Piero Pretti, dal canto suo, ha saputo combinare le due anime di Adorno, d’attor giovane affettuoso e di incarognito vendicatore, con ampia varietà d’espressioni, glorificate da uno squillo veracemente tenorile e da una linea di canto mai in riserva di vigore. Il baritono Stoyanov ha trovato, proprio nel ruolo baritonale più insidioso e complicato di Verdi, quelle risorse di personalità, di originalità nella caratterizzazione, la cui debolezza ci era altre volte toccato, con rammarico perché la solidità vocale dell’artista non è mai stata censurabile, di rimproverargli: anzi, anche più d’altri giustamente celebrati interpreti del ruolo, ci è sembrato attento ed abile a distinguere non solo il Corsaro giovane e vigoroso del prologo dal Boccanegra anziano dell’opera, ma anche il meditabondo, affettuoso, talora perfino insicuro Simone-padre, dal mai domo, energicamente carismatico doge accerchiato da congiurati.
Eccellenti anche i deuteragonisti, Devid Cecconi, Paolo torvo nell’accento e tonante nel canto, Adriano Gramigni, Pietro di bella, timbrata presenza e Chiara Guerra nell’unica battuta riservata all’Ancella. Del coro nil nisi bonum, anche se i tenori non squillano più come un tempo e non s’ha che dolersene, e così dell’orchestra.
E veniamo al contestato spettacolo della Carrasco, certo corrusco (può perdonarmi il lettore di non aver resistito al facile giochetto?): ma l’idea del mattatoio (devastante la forza sconvolgente dell’uccisione del vitello, in presa diretta) è potente ed azzeccata, consona alla ferocia di quelle che furono le lotte faziose che insanguinarono ogni comune italico dal medioevo alla fine delle signorie, quando lo “Straniero” s’impadronì di quei litigiosi stati-campanile, silenziando ogni voce. Ed il mattatoio è il centro nevralgico del “popolo”, gli operai, che rovesciano il regime agnatizio eleggendo “ad una voce” il corsaro Boccanegra all’alto scranno. Centrata fu pure la congiura nel chiasso festoso del mercato, ché la lotta politica – pare intendere la Carrasco – non è altro che la fiera di strapaese; i quarti di bue (ma a me sembravano piuttosto dei maiali – altra allusione ai politici?) che pendono, rappresentando lo squallido, morto, miserabile e miserrimo oggetto del contendere.
Buona l’idea, quello che non funzionava era la regìa vera e propria, che – oltre agli errori d’inquadratura di due personaggi cardine, quali Fiesco e Amelia/Maria – pareva agire come casualmente sugli attori: da trovate involontariamente comiche (come quando Simone, scoperta “muta la magion de’ Fieschi”, nota che “dischiuse son le porte”: che egli stesso un attimo prima aveva rumorosamente scardinato), a piccole ma non trascurabili gaffes, come Adorno disarmato da Pietro e Paolo che, anzi, avevano tutto l’interesse a che il Doge finisse ucciso, ad altri inciampi mal giustificabili. Ad esempio – ma questa è la mania di molti registi d’infarcir l’azione, necessariamente rallentata dai tempi fisiologici del canto, con controscene, irritanti o sciocche (che poi è lo stesso) — la pantomima alle spalle di Fiesco mentre si lacera lo spirito e la processione che porta fuori un fantolino sottratto dalle mani del basso: ma quel bimbo chi è, da dove salta fuori? Una proiezione di Maria? Ma quale delle due? E perché? Un desiderio: che i registi d’opera si dimenticassero, per un lungo periodo, di Freud e di Lacan e – soprattutto – rinunciassero ad ogni simbolismo. Non se ne può più; e non è mezzo adeguato a render più moderna l’arte antica.
Bernardo Pieri
Foto: Roberto Ricci