MASSENET Werther Jean-François Borras, Caterina Piva, Jérôme Boutillier, Armando Gabba, Hélène Carpentier, Roberto Covatta, Marco Camastra; Orchestra e Coro di voci bianche dell’Opera Carlo Felice, direttore Donato Renzetti regia, scene e costumi Dante Ferretti
Genova, Teatro Carlo Felice, 26 novembre 2023
Una certa aria di sufficienza sopravvive in parte della critica nei confronti di Werther. Un atteggiamento un po’ snobistico che non tiene conto, oltre che di un successo che dura imperterrito da ben oltre un secolo, di alcuni punti di forza del capolavoro massenetiano. Da un lato ovviamente l’aver fornito un formidabile banco di prova a molte generazioni di tenori, dalla fisionomia anche differente: impossibile non sottolinearlo in una città che nel ruolo ha visto le gesta di Tito Schipa e di Alfredo Kraus, oltre che di una serie di validissimi altri interpreti. Massenet è inoltre stato uno dei pochissimi compositori a osar mettere in musica quello che rimane uno dei romanzi più influenti dell’epoca moderna, e l’unico ad aver avuto successo nell’impresa; infine, Werther è opera pienamente al passo coi suoi tempi nel mettere in scena quel trascolorare continuo tra intensa passionalità e colore quotidiano che rappresenta un tratto comune di tanti capolavori degli ultimi trent’anni dell’Ottocento, da Carmen a Evgenij Onegin a La bohème. Un contrasto mirato a far spiccare dalla (gioiosa) banalità di tutti i giorni la totale alterità, nel bene e nel male, di Werther (e di Charlotte), e che riceve nel finale dell’opera la concretizzazione più intensa con la straziante irruzione del canto natalizio nell’agonia del protagonista.
L’equilibrio tra queste diverse dimensioni dell’opera è senz’altro uno dei problemi più delicati della sua messa in scena e della sua interpretazione. E in questo nuovo allestimento genovese (in coproduzione col Teatro Nazionale di Zagabria) proprio una marcata ricerca di equilibrio era evidente sia nell’impostazione visiva di Dante Ferretti che nella direzione di Donato Renzetti. Il grande scenografo e regista sposta l’azione negli (oggi apparentemente inevitabili!) anni trenta del Novecento, ma senza forzature e dando vita a uno spettacolo di grande coerenza: il primo atto presenta un impatto di rara simmetria e bellezza, al centro un grande pavillon che sembra tradurre fisicamente l’atmosfera arcadica che il protagonista percepisce nella casa del borgomastro; il terzo atto disegna un interno di pari eleganza, ma con una dominante rosso acceso coerente con le passioni ospitate dalla casa di Albert; gli altri atti incontrano un’ambientazione apparentemente più ardita, ma che risulta di fatto funzionale e poeticamente felice, il secondo contrapponendo una piccola chiesa rinascimentale e un caffè di architettura razionalista, il quarto avendo luogo in un garage che rispecchia l’isolamento claustrofobico di cui Werther finisce per rimanere vittima.
Analoga eleganza ha caratterizzato la direzione di Donato Renzetti, che ha dipanato tutta la partitura con un respiro logico e una concertazione davvero raffinata; soltanto nel primo atto, e in parte anche nel secondo, la ricerca di equilibrio è sembrata soffocare un poco l’improvviso balenare delle passioni. Un’impostazione che in qualche modo corrisponde alle caratteristiche di Jean-François Borras, che impersonava il protagonista: voce ben condotta, di una certa finezza, ma un po’ carente di colori, a causa dell’impostazione leggermente nasale, e che non dispone di un accento autenticamente drammatico. Di Werther quindi vengono comunicate sia la profonda malinconia sia l’aspirazione verso la trascendenza: soprattutto in un quarto atto davvero convincente, tutto esalato a fior di labbra, ma anche in momenti come l’ambigua confessione ad Albert del secondo atto, “et ce sera ma part de bonheur sur la terre”. Se l’arioso in chiusura d’atto (“Lorsque l’enfant revient d’un voyage”) è risultato piuttosto intenso, anche in ragione di uno squillante si naturale ad “appelle moi!”, in episodi come l’Agité et passionné “J’aurais su ma poitrine” Borras è però sembrato incapace di “infettarci” davvero con l’esaltazione di Werther.
Caterina Piva ci presenta una Charlotte vera anima gemella del protagonista nella cappa di malinconia che sembra avvolgerla costantemente; la voce è bella, timbrata in tutta la gamma, l’interprete coinvolgente, anche se maturando il personaggio (che affrontava per la prima volta in questa occasione) saprà senz’altro offrire un fraseggio più personale e generoso di sfumature. Molto originale ed efficace la visione che Jérôme Boutillier ci ha offerto di un ruolo ingrato come quello di Albert: la robustezza del canto (ove un vibrato stretto appare messo al servizio dell’espressività) e la figura elegante sembrano trasferire nel personaggio un’ombra della virile nobiltà di Escamillo (Carmen del resto fu ben presente a Massenet durante la composizione di Werther), rendendolo più umano; la chiave di volta nella sua psicologia sembra costituita dalla constatazione, a suggello del secondo atto, del fatto che il protagonista gli ha mentito (“Il l’aime!”), trasformandolo nel terzo in un essere arido e crudele.
Voce gradevole, per nulla da “sopranino”, e figura spigliata hanno caratterizzato positivamente la Sophie di Hélène Carpentier; simpatico il Borgomastro di Armando Gabba, ed efficaci le altre figure di contorno, tra le quali risaltano un Brühlmann e una Kätchen non proprio “giovinetti” come vorrebbe il libretto…
All’interno del Coro di voci bianche del Carlo Felice, il direttore Gino Tanasini ha selezionato per i sei fratellini di Charlotte e Sophie componenti un po’ più grandicelli: risultato, i loro interventi offrivano una piacevolezza e morbidezza davvero inusuali, senza alcun pregiudizio della credibilità scenica.
Lo sciopero che ha cancellato la prima di venerdì 17 ha ridotto a tre appena le recite dello spettacolo, e ciononostante la platea all’ultima replica è risultata lo stesso poco affollata. Peccato per chi non c’era: lo spettacolo meritava di esser visto, e il pubblico, dopo un’accoglienza inizialmente un po’ tiepida, lo ha salutato con calore crescente.
Roberto Brusotti