SKRJABIN 24 Preludi op. 11 CHOPIN 24 Preludi op. 28 pianoforte Mikhail Pletnev
Milano, Sala Verdi, Serate Musicali, 6 novembre 2023
Nonostante l’ultimo bis sia stato un chiaro atto di condiscendenza alle ragioni del divertimento, con l’esecuzione, funambolica, dello Studio op. 72 n. 6 di Moritz Moszkowski da Pletnev rivisitato nello stile di Horowitz e perciò cosparso a piene mani di bellurie circensi e di tutte le piacevolezze del caso, una parte del folto pubblico che ha tributato entusiastiche ovazioni all’artista ha comunque lasciato la sala di concerto con una sensazione di sottile inquietudine. Nel silenzio che è seguito alla performance, il messaggio ha continuato a lavorare incessantemente nell’anima dei presenti. Non è stato un concerto “facile”, anche se incredibile, quello di lunedì 6 novembre. Dal magnifico Shigeru Kawai EX che lo accompagna come un’ombra in ogni suo spostamento, Pletnev ha scatenato, fin dalle prime note, tutto il suo potere mesmerizzante. All’attacco dei Preludi op. 11 di Skrjabin è infatti bastato un attimo per ricordare le parole di Arthur Rimbaud al poeta Paul Demeny, nella lettera del 15 maggio 1871: “Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme di amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca sé stesso, esaurisce in sé tutti i suoi veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, — e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca più di qualsiasi altro! […] Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco”. Il ladro di fuoco Pletnev, rivelatosi subitaneamente nella lama di luce della seconda discendente iniziale del Preludion. 1, Vivace, dove nelle ripetizioni ha ceduto al ripiegamento, passando dalla folgorazione lancinante alla più commovente tenerezza, non ha viceversa concesso nulla ai consueti scatenamenti tellurici nei Preludion. 6, Allegro, semmai costruito sull’iperespressività degli intervalli melodici, o nel n. 14, Presto, eccettuata la necessaria orgiastica ribattitura finale dell’accordo di mi bemolle minore. Prediletta invece nei Preludi n. 18, Allegro agitato, e n. 24, Presto, la vibrazione magmatica, oscura, caotica della materia ottenuta attraverso una abbondantissima pedalizzazione.
Lo strumento di Pletnev, pianoforte non più pianoforte, in assenza di ogni impulso percussivo, si è quindi fatto vettore di una sensitività rabdomantica, di una emotività piena di sottigliezze, intimamente disinibita. All’origine, l’agitarsi dell’io in una sorta di liquido amniotico, cifra dello stato embrionale della coscienza, da cui un’interpretazione che è sembrata prendere forma sul momento, estemporaneamente. Così nel Preludion. 2, dove il segnale, il monito, individuato nella nota pedale la, ha preparato la rivelazione di una melodia appena sussurrata a fior di labbra, e tuttavia intonata secondo quella sensibilità tipicamente slava per la quale l’esordio coincide con l’apice dinamico e l’apice emotivo con il diminuendo: una malinconia della vita che pervade la maggior parte dei paesaggi interiori di quella cultura. Sottigliezze che sono ritornate poi nel Preludio n. 10, Andante rubato, dall’ambigua indefinitezza espressiva iniziale, nel Preludio n. 12, Andante, attraversato da un profondo senso di annientamento, fino a quel culmine emotivo che è stato il Preludio n. 21, Andante, le cui sibaritiche sfumature dinamiche alle soglie dell’inudibile sono state il veicolo della confessione più segreta: la nostalgia di ciò che non potrà mai più essere. Negromante del pianoforte, virtuoso della meccanica e del suono senza pari, Pletnev ha saputo ovunque gestire con una varietà di accenti e di atteggiamenti espressivi assolutamente inaudita polifonie di timbri e di dinamiche in cui le linee si sono mosse entro i confini di una interdipendenza che ha sempre comunque lasciato spazio all’autonomia musicale e rifuggito qualsivoglia meccanica coincidenza.
Con la seconda parte del concerto il pianista russo è quindi passato dagli aforistici Preludi op. 11 che Skrjabin mise a punto tra il 1888 e il 1896, alla celeberrima raccolta dei Preludi op. 28 di Chopin, la cui gestazione non fu altrettanto lunga ma comunque abbastanza lunga, avendo Chopin già abbozzato alcuni Preludi a Parigi nel 1836, prima di lavorarci intensamente, tra il 1838 e il 1839, a Maiorca. Merito di Chopin, assai più che di Kessler, con il quale si scambiarono dediche incrociate per i rispettivi Preludi, l’aver sciolto questa forma breve dal vincolo della sua funzione prolusiva, dandogli una identità espressiva assolutamente nuova.
Mentre Pletnev sciorinava secondo imprevedibili, spettrali prospettive la sequenza dei Preludi chopiniani, subito le considerazioni di Schumann sull’op. 28, contenute nella celebre recensione pubblicata nel 1839 sulla «Neue Zeitschrift für Musik», sono apparse sotto una luce diversa, rivelandosi nel loro senso più profondo. “Prima ho definito strani i Preludi. Confesso che li immaginavo assai diversi, condotti, come i suoi Studi, in uno stile grandioso. È invece quasi il contrario: sono schizzi, principi di Studi, o, se si vuole, rovine, singole penne d’aquila, tutto disposto in modo selvaggio e alla rinfusa. Ma in ciascuno dei pezzi sta scritto, quasi un raffinato ricamo di perle: “Lo scrisse Federico Chopin”; lo si riconosce nelle pause e nel respiro violento e appassionato. Egli è e rimane lo spirito più ardito e più fieramente altero del nostro tempo. Questo fascicolo comprende anche qualcosa di malato, di febbricitante e repulsivo; cerchi qualcuno ciò che gli potrà giovare, e solo il filisteo ne rimanga lontano”. In Pletnev il tratto dominante è stata proprio l’assenza di quel tratto grandioso intimamente connesso con il temperamento dell’eroe romantico, ribelle, alle prese con la titanica opposizione tra l’io e il mondo. Ed è così emerso il lato oscuro, eversivo di questa sequenza di pezzi brevi — schizzi, principi di Studi, rovine, singole penne d’aquila –– che Chopin stesso non aveva concepito come raccolta unitaria, ma come potenziale antologia di pezzi da selezionare e ricomporre in nuove successioni. L’aspetto che Schumann percepiva come malato, febbricitante, e in definitiva addirittura repulsivo, con Pletnev è diventato, in molti momenti, una ipnotica palude Stigia nel quale l’anima si è agitata senza colore e senza speranza. Istintivo il parallelo il capolavoro pittorico di Johann Heinrich Füssli, Il silenzio, emblema della solitudine umana, concentrato su un’unica figura centrale senza identità, inerme, piena di rassegnazione, che emerge dal buio. Preceduto dal Preludio n. 14, Allegro pesante, calato in un universo magmatico che per la sua assenza di melodia tanto ha ricordato il finale della Sonata op. 35 dove carsicamente emergono soltanto relitti di voci, il Preludio n. 15, Sostenuto, considerato dai più il cuore emotivo dell’opera anche per la sua vastità strutturale (vi cade, oltretutto, in coincidenza con il nudo recitativo finale, la sezione aurea), è stato restituito con un respiro per nulla sentimentale. A partire dal suono ribattuto, ossessione nella bellezza, è quindi precipitato nell’atmosfera livida del trio in do diesis minore, fotografia di un buio dell’anima che ha trovato il suo pendant solo nella desolazione del pianissimo della seconda eco del Preludio n. 20, Largo. A seguire il Preludio n. 16, Presto con fuoco: un’articolazione del suono di un nitore abbacinante, pedale quasi completamente assente, livello di rischio altissimo dal punto di vista esecutivo. Anche qui nessun furore, nessun accento di sfida, piuttosto un pianismo scoperto, sprezzante del pericolo, e un controllo del suono, assolutamente inaudito, nella leggerezza. Le indicazioni chopiniane, in molti Preludi, sono state sovvertite: ad esempio nel Preludio n. 2, Lento, restituito in tempo Andante (che bellezza i movimenti interni delle voci!) o nel Preludio n. 5, Allegro molto, ripensato in tempo Allegretto o nel Preludio n. 9, Largo, sentito in tempo Andantino o nel Preludio n. 11, Vivace, interpretato in tempo molto tranquillo, cantabile ed elegante. Non sono mancati naturalmente momenti profondamente toccanti (espressionista, o quasi, il n. 4; tenerissimo, commovente il Più lento del n. 13) o di grande eleganza (nel n. 7, mazurca dalla pedalizzazione essenziale), alchimie derivate da giochi timbrici, scambi di intonazione delle voci (n. 1, n. 8), fraseggi dal “respiro violento e appassionato” (i “quasi recitativo” del n. 18) fino all’epilogo, tragico, rappresentato dal n. 24, Allegro appassionato, che di passionale non aveva proprio nulla. Nell’esaltazione delle asperità intervallari, delle dissonanze non mediate, questo finale, disperato, dove si sono addensate tutte le precedenti ombre, è terminato con un antieroico diminuendo, sull’ultimo suono, re.
In una dimensione amorale, senza giudizio, Pletnev si è dunque comportato come un contemporaneo Stalker tarkovskijano: guida clandestina, veggente, che in un ambiente da apocalisse postatomica, su pavimenti d’acqua, ci ha condotti in un viaggio nel subconscio. Anche l’ambientazione sonora, fatta di nebbie, addensamenti magmatici e liquidità sonore, enigmatiche e stranianti, ha sottolineato questo percorso interiore nelle aree più inesplorate della sensibilità umana, dove hanno girovagato, come bestie selvatiche, l’arte e la poesia: “Che si avverino i loro desideri — diceva la voce fuori campo del film di Tarkovskij — che possano crederci e che possano ridere delle loro passioni: infatti ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale ma solo attrito tra l’animo e il mondo esterno. E soprattutto che possano credere in sé stessi e che diventino indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza e la forza è niente”.
Il recital si è quindi chiuso come era iniziato, in un moto circolare, con il ritorno allo Scriabin degli Studi op. 2 n. 1 e op. 8 n. 12, prima del dolcetto finale.
Silvia Limongelli