Pletnëv ricrea il Rach3 per l’apertura dei Pomeriggi

RACHMANINOV Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 30 STRAVINSKI L’Oiseau de feu (terza suite, versione del 1945) pianoforte Mikhail Pletnëv I Pomeriggi Musicali,direttore Ryan McAdams

Milano, Teatro Dal Verme, 10 ottobre 2024

Il concerto inaugurale dell’80esima stagione dei Pomeriggi Musicali è iniziato sulle note del Terzo Concerto in re minore op. 30 di Rachmaninov. Un concerto che il compositore russo mise in cantiere a seguito del grande successo internazionale ottenuto dal Concerto n. 2 in do minore op. 18 e che dedicò a Joseph Hofmann: il debutto a New York il 28 novembre 1909, al pianoforte, naturalmente, lo stesso Sergej Rachmaninov, direttore Walter Damrosch, a cui seguì la replica del 16 gennaio 1910 con la New York Philharmonic diretta da Gustav Mahler. Dopo Horowitz, dopo Gieseking, dopo una infinita serie di pianisti, da Gilels a Berman, alla Argerich, a Weissenberg, a Volodos, fino a Lang Lang e Trifonov, di questo Concerto oggi Mikhail Pletnëv e il giovane direttore d’orchestra americano Ryan McAdams hanno sottolineato l’intimo intreccio tra l’ardua scrittura affidata al pianoforte, mercuriale e leonina espressione di un io dominante, e lo stratificato tessuto mutevole e avvolgente dell’orchestra. Il Pletnëv pianista, che ha guidato l’esecuzione più che il direttore dal podio, ha avuto in McAdams un partner disponibile, nella mutevolezza, ad assecondare i suoi desiderata, una sorta di direttore comprimario, di “spalla”, talvolta spiazzato dagli infiniti meandri di una libertà agogica e di accentuazione pressoché imprevedibili. Un approccio, questo di Pletnëv, affine alla lettura data da Vladimir Delman e Aldo Ciccolini del Secondo Concerto op. 18 nell’ormai lontano 1978 con l’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano, in cui il pianoforte era al contempo assoluto protagonista e strumento concertante di una partitura sinfonica.

Memorabile l’inizio: dopo le due misteriose battute introduttive in ritmo puntato, si è presentato al pianoforte il primo tema, indicato da Rachmaninov con l’aggettivo commodo. La dinamica della prima frase, ordinariamente in piano con un piccolo crescendo tra la terza e la quarta battuta, ha subito, con Pletnëv, un completo ribaltamento dinamico; da cui un punto culminante sulla prima nota re, violentemente illuminata a giorno, quasi incisa nella pietra, e a seguire una sequenza mobile che è andata poco a poco a chiudersi. Quindi l’inizio della seconda frase, sul medesimo incipit iniziale che stavolta è risuonato in più che pianissimo, un sussurro laddove Rachmaninov indica invece un semplice piano, costringendo l’orchestra ad una acrobazia sonora inusitata nello strenuo tentativo di non sovrapporsi al pianoforte. Al termine della sezione del primo tema, la marcata sottolineatura delle note appoggiatura, delle dissonanze, “colpite” in senso espressionistico un po’ come faceva l’ultimo Horowitz quando voleva illuminare un suono o un dettaglio armonico, ritmico e melodico. A partire dalla successiva sezione Più vivo si è quindi percepito il ruolo di spicco riservato, nell’op. 30, agli strumenti a fiato: nel botta e risposta tra pianoforte e oboi/fagotti e tra il pianoforte e flauti/clarinetti, quindi nell’intimo dialogo che caratterizza il secondo tema in si bemolle maggiore, il cui incipit non è altro che il rovescio dell’inciso iniziale del primo. Un dialogo in cui i fiati rispondono in dolce, costringendo il pianista ad inabissarsi dinamicamente, per dare spazio dapprima all’intervento in contrappunto del fagotto, poi del corno, infine a quello degli oboi e dei clarinetti.

Una menzione speciale merita la costruzione della celeberrima cadenza dello sviluppo dell’Allegro ma non tanto iniziale. Un percorso verso il grande punto culminante di tutto il primo movimento (per Pletnëv un lungo arco che dirige inesorabilmente la propria energia verso un oscuro, inquietante re basso), che non è stato raggiunto semplicemente calibrando la potenza fisica ma piuttosto attraverso un sofisticato processo di sovrapposizione delle voci, di voluti cambi di strumentazione, come in una partitura in cui il crescendo non è dato soltanto dall’aumento progressivo della dinamica, ma dalla stratificazione di nuove linee, di nuovi colori strumentali fino all’esplosivo tutti.  Da cui la subitanea, disinibita variazione del pianista russo di pesi, colori, timbri e conseguenti attacchi del tasto. E se nella successiva riesposizione nel Moderato dolce, preparata da interventi dei flauti clarinetti e corni, a Pletnëv è scappata qualche nota, al pubblico non è importato affatto.

Dell’Intermezzo centrale, inizialmente un Adagio in la maggiore, vale la pena di ricordare, l’ingresso a cadenza del pianoforte, Più mosso: un violento getto di detriti, disomogeneo, con una ricaduta caotica e informe. Ma con il ritorno del tema iniziale dell’Adagio in re bemolle maggiore, l’epifania del più profondo momento di abbandono emotivo, nella dolcezza, di tutta la sua interpretazione del Concerto.

Che dire poi in generale del virtuosismo degli scintillanti passaggi di agilità, di cristallina purezza, sciorinati da Pletnëv ad una velocità funambolica, come nell’A tempo come prima del Finale. Alla breve che segue la citazione del secondo tema del primo movimento, o della capacità del grande pianista russo di far emergere dall’oscurità, carsicamente, frammenti di linee, schegge di contrappunto, per poi farle scomparire nuovamente nel nulla. Un fluire assoggettato alla logica del sentire estemporaneo, in una costante fluttuazione di tutti gli elementi costitutivi.

L’interpretazione del Concerto n. 3 di Pletnëv si è imposta quindi sia per la sua profonda logica che per la sua dimensione sfacciatamente soggettiva, espressione di un prepotente io creativo che è capace di autodeterminarsi e che non teme di essere tacciato di arbitrarietà. Due i bis: dapprima i giochi di prospettive timbriche, tra primi piani e piani secondari, lontanissimi, nel Preludio in re maggiore op. 23 n. 4 di Rachmaninov, quindi il virtuosismo digitale nello Studio op. 72 n. 6 di Moszkowski, da Pletnëv sciorinato con velocità e chiarezza sovrumane in una versione da concerto che presenta alcune caratteristiche proprie degli adattamenti.

Nella seconda parte del Concerto LOiseau de feu, originariamente il primo dei tre balletti commissionati da Sergej Djagilev a Stravinski per i suoi Ballets Russes a Parigi, il cui soggetto tratto da una fiaba russa viene trasformato dal coreografo Fokine in sceneggiatura. Dall’originario balletto del 1910 vennero poi tratte tre Suite, di cui è stata eseguita la terza, la più lunga, del 1945, messa a punto da Stravinski a Los Angeles. Alla testa dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali, che ha dato il suo meglio, McAdams ne ha restituita una versione piacevole, equilibrata, ma che spesso non ha posto l’accento sulla forza pantomimica e sui fantasmagorici giochi di timbri dell’originale ballettistico. In una attitudine a smussare gli estremi, sia la prepotenza sonora della pagina centrale del balletto, La danza infernale, violenta sequenza di coltellate sonore collocate sui tempi deboli della battuta, che la suggestione diafana, rarefatta, della Ninna-nanna finale, pagina straordinariamente ispirata che sembra giungere alle nostre orecchie dall’aldilà, hanno subito un processo di “normalizzazione” espressiva. Ma l’ostinato che ha guidato l’ascoltatore verso l’impressionante crescita della tensione emotiva e sonora delle ultime pagine ha comunque decretato il grande successo di pubblico e dell’inaugurazione di questa nuova stagione dei Pomeriggi Musicali.

Silvia Limongelli

(Foto: Lorenza Daverio)

Data di pubblicazione: 17 Ottobre 2024

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