OFFENBACH Les contes d’Hoffmann V. Grigolo, E. Buratto, F. Di Sauro, M. Viotti, F. Guida, L. Pisaroni. F. Piolino, Y. Beuron, A. Antoniozzi; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Frédéric Chaslin regia Davide Livermore scene Giò Forma costumi Gianluca Falaschi
Milano, Teatro alla Scala, 21 marzo 2023
Districarsi nella storia editoriale dei Contes d’Hoffmann è impresa complicatissima, che certo elude gli spazi e gli obiettivi di una recensione: detto questo, non si può fare a meno di notare come quella assemblata dal Maestro Chaslin per la nuova produzione scaligera dell’estremo capolavoro di Offenbach sia un’edizione presuntuosa e, insieme, pigra. Presuntuosa perché, come da lui affermato coram populo (anche sul magazine del teatro), ignora volutamente e con disprezzo la novissima edizione critica Kaye-Keck che, al di là delle opinioni personali, pone un punto fermo sul materiale disponibile di questa inafferrabile partitura, su quello che è d’autore e quello che è spurio, sulle scelte possibili e quelle invece arbitrarie; pigra perché poi quello che Chaslin propone come “sua” edizione non è altro che la vecchia Choudens, con qualche inserto della criticabile (quella sì…) Oeser e dei tagli che, specie nell’atto di Giulietta e nell’Epilogo, giungono a sfigurare la trama e la sua comprensibilità. Quindi sentiamo ancora “Scintille diamant” (bella, certo: ma non di Offenbach, benché ispirata a musica sua) e l’apocrifo settimino, mentre Giulietta non presenta la sua “L’amour lui dit: la belle”: per tacere della mancata identificazione, nel finale, tra Musa e Nicklausse, vista l’eliminazione di alcuni versi cruciali. Poi uno apre il programma di sala e trova — si perdoni l’inevitabile bisticcio — Emilio Sala (uno che davvero conosce la materia anche capovolta) il quale scrive che “nonostante la versione coi recitativi approntata da Guiraud […] si tratta di un’opera che appartiene a un genere ibrido, in cui sono previste delle parti recitate: un genere […] che per molti versi resta ancor oggi imbarazzante e incompreso”. Incompreso anche qui, da Chaslin e dalla Scala, che hanno eliminato in toto ogni dialogo parlato, con ciò negando alla radice la natura stessa dell’opera (e di gran parte del teatro francese dell’800…). Poi c’è lo Chaslin concertatore e direttore d’orchestra: come nella Gioconda di qualche mese fa, si rivela bacchetta pesante, morchiosa, lenta, priva di colori, nefasta per i cantanti (nel difficile trio la povera Buratto-Antonia doveva salire al Do diesis nel modo più difficile possibile), con cambi di tempo incomprensibili. Davvero censurabile.
Per fortuna Davide Livermore, pur colpito dai tagli al budget per questa produzione, ha saputo convincere con uno spettacolo tutto giocato sull’elemento misterioso e perturbante, fra inquietanti lemuri neri che accompagnano l’azione dei personaggi, un sapiente gioco di “doppi” e un uso raffinato di luci e proiezioni, che ricordano ora la lanterna magica ora il caleidoscopio. L’invasione della platea con un enorme telo nero, durante la Barcarola, era forse suggestiva per il pubblico di palchi e gallerie, meno per chi (come lo scrivente) rimaneva sotto: ma l’idea di un ondeggiare continuo, a velare l’azione, era portata avanti con gusto in vari momenti topici. Peccato solo per certi eccessi, come l’Hoffmann-Gene Kelly che ancheggia col microfono, o un certo eccesso di smorfie e controscene, a partire dalla taverna di Luther. Ma l’atmosfera inquietante e misteriosa dell’opera, quel mondo in bilico tra Romanticismo tedesco e Francia post Sédan, a mio avviso era ben colto: che poi fosse davvero necessario un nuovo allestimento dell’opera di Offenbach e non fosse più saggio riprendere quello (bellissimo) di Carsen del 2012 è un altro par di maniche: ma allargheremmo troppo il discorso.
Cast di buon livello: Vittorio Grigolo, alle prese con una parte lunghissima e faticosa, impiega la sua esuberanza teatrale nella costruzione di un personaggio passionale ed impetuoso, mettendo a buon fine l’eccellente pronuncia francese e la luminosità del timbro, che solo in alcuni acuti (più ricchi di fibra che di squillo) risulta velato. Marina Viotti (Nicklausse) ha timbro peculiare, ma accento davvero memorabile e una linea di canto precisa, che sa espandersi con generosità, sì che il suo “Vois sous l’archet” è stato il momento più splendente (e più applaudito della serata).
Federica Guida ha saputo rimpolpare il suo timbro e dare accenti di maligna intensità alla bambola Olympia, mentre Eleonora Buratto ha mostrato grande sicurezza in tutti gli estremi acuti (fino al Re) di cui è infarcita la parte di Antonia, dipinta poi con tratti di commovente fragilità. Apprezzabile anche il colore della Giulietta di Francesca Di Sauro (presente anche come Madre di Antonia), mentre Luca Pisaroni ha timbro suadente, accento persuasivo e grande disinvoltura scenica, ma il quadruplice ruolo demoniaco gli va largo di almeno una terza in acuto. Né si può chiudere questa cronaca parlando del modesto François Piolino (che cantava i quattro servi) e del talento senza età di Alfonso Antoniozzi, Luther e Crespel di singolare rilevanza. Applausi cordiali, con contestazioni a Chaslin (“è una banda”, il grido risuonato al suo ritorno sul podio).
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala