BEETHOVEN I concerti per pianoforte e orchestra Orchestra da Camera di Mantova, direttore e pianoforte Alexander Lonquich
Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 30 giugno e 1° luglio 2021
Quando Alexander Lonquich suonò per la prima volta a Torino, nel 1978, l’anno successivo alla vittoriosa rivelazione al concorso “Casagrande”, i giornali lo presentarono come un ragazzo riservato, un po’ timido ma certo molto maturo, che divorava Musil e Dostoevskij, accompagnato alle interviste da una madre fermissima nell’affermare con orgoglio: “No, non sarà mai un divo. È troppo studioso”. E così è stato, come tutti sanno. Quella naturale vocazione a porre la musica al centro di un vasto approfondimento culturale, applicata con rigore e continuità, ne ha fatto un artista oggi pressoché unico in quanto solista eccelso, direttore non per caso, punto di riferimento di orchestre, istituzioni e rassegne (solo alcune: “Trame Sonore” a Mantova, la Scuola di Musica di Fiesole), iniziative all’insegna della multidisciplinarietà, come “Kantoratelier”, ideato con la moglie Cristina Barbuti, con lui anche in un duo pianistico, su quel fronte cameristico che lo vede assiduo. Nonché praticamente italiano per adozione, per nostra fortuna. E l’ormai lontana previsione materna non avrebbe potuto essere più centrata.: è innegabile che si va ad ascoltarlo con animo diverso da quello che ci muove quando ad esibirsi è una star del concertismo. Per come sono costruiti ed affrontati, i suoi programmi sono sempre una vera e propria lezione, hanno il potere di farci comprendere con evidenza concreta, meglio forse di tanti voluminosi saggi, le ragioni storiche e stilistiche dei brani proposti, i loro rapporti con ciò che è stato e che sarà, senza traccia di pedanti didatticismi. È con interpreti di tal fatta che la musica si spiega da sé. E poi, se qualcosa appare cresciuto in Lonquich è proprio la capacità di galvanizzare strumentisti e pubblico, con immediatezza e spontaneità. Il suo modo di far musica è dunque un amalgama perfetto, equilibratissimo, di scavo introspettivo, nota su nota, e emozionalità. Pura felicità per i sensi e alimento per la mente, elargita con inesausta generosità ai non molti (purtroppo: ma la ricostruzione delle platee è ancora cosa ardua…) che non hanno voluto rinunciare all’integrale dei Concerti beethoveniani programmati dall’Associazione Lingotto Musica, eseguiti due volte in ventiquattro ore, con freschezza intatta dall’inizio alla fine. Come quelli di Mozart, per Lonquich i Concerti di Beethoven sono ormai i compagni di una vita, accostati da diverse prospettive, prima solo come solista (anche con uso del fortepiano), quindi in doppio ruolo. In tale veste a Torino i precedenti sono ben due: nel 2009 con la Nazionale della Rai, alternati a tutte le Sinfonie di Schubert, quindi nel 2011, già con l’Orchestra da Camera di Mantova. Da sempre Lonquich non è interprete né bizzarro né stravagante. Ma l’indole riflessiva non lo ha mai reso accademico, così come non gli preclude l’estro. Per esperienza diretta mi sentirei di dire che la sua visione di questo corpus musicale era già profilata da tempo e ciò che ci appare nuovo è la sensazione di una padronanza pressoché completa, frutto di una familiarità coincidente con un continuo affinamento. Lonquich sa bene che i primi concerti di Beethoven sono mozartiani soprattutto nello schema formale, mentre la personalità dell’autore si fa avvertire in non pochi passaggi e modulazioni, per i quali Bekker parlava di “energia latente” e di “vitalità intensa”, proprio quella che Lonquich non manca di sottolineare, foss’anche col marcare l’accento di una sola nota, con un gesto che coincide sempre con un preciso segnale. In una successione che segue, naturalmente, l’ordine cronologico compositivo, la progressione si sempre più evidente, secondo la logica di una rivoluzione linguistica che però procede da subito per fratture piccole e grandi, ma in modo dirompente, preannunciando traguardi futuri. Non fa forzature, Lonquich, ma il suo obiettivo è farla rifulgere in tutta la sua sostanziale unitarietà, confermata anche là dove le carte sembrano confondersi. E infatti non stupisce quel suo lanciarsi con foga nell’ardita struttura delle grandi cadenze dell’op. 19 e dell’op. 15 (scegliendo la più complessa, fra le varie possibili) composte da Beethoven molto più tardi, intorno al 1809, e delle quali è parso voler esaltare senza alcun pudore, anzi quasi con voluttà, l’effetto straniante. Nell’insieme, nel rispetto delle differenze, è innegabile non riconoscere nella sua lettura precisi denominatori comuni: la funzione creativa della componente ritmica, sempre in primo piano; l’energia e la tensione del fraseggio, persino nei tempi centrali, in cui poco concede a al puro abbandono estatico, volendoli piuttosto sospesi in un’atmosfera di intimismo drammatico, mai veramente rilassata, che si dissolve in una serenità comunque inquieta; lo stacco dei tempi, generalmente sostenuto. Con una tavolozza dinamica che non ha necessità di indugiare in eccessivi sortilegi chiaroscurali, dallo strumento ricava un suono corposo e levigato, luminoso e brillante, ben rappresentativo di quel virtuosismo di moda che Beethoven seppe elevare e trasfigurare in senso espressivo. Si aggiungano l’impeccabile articolazione di ogni frase, gli arpeggi fluidissimi, lo smalto dei granitici trilli che guardano molto avanti, il dominio vigoroso dei passaggi più scabrosi e, non ultima, l’attentissima pedalizzazione, messa particolarmente a frutto nel Largo dell’op. 37 e nell’Andante con moto dell’op. 58, alla ricerca di quella timbrica impalpabile e inedita che il compositore desiderava. E chissà, forse non è un caso che dopo l’op. 37, Lonquich abbia scelto come bis il primo tempo della Sonata op. 26, il cui completamento è coevo alla lunga gestazione di quel concerto, e nella quale per la prima volta Beethoven prescrive con precisione l’impiego del pedale di risonanza. Resta da dire del prodigarsi di Lonquich nei confronti dell’orchestra, il suo incessante andare e venire dallo strumento, che la crescente integrazione legata all’evoluzione strutturale dei lavori rende via via meno possibile. Come se ce ne fosse stato bisogno, verrebbe da dire, vista la lunga consuetudine e la totale sintonia con la motivatissima Orchestra da Camera di Mantova e la sua impagabile spalla (nonché fondatore e direttore artistico), Carlo Fabiano. Nella realtà attuale, di fronte al dono di un Beethoven così vitalistico, positivo e messaggero di forza e coraggio non si può che essere assolutamente grati e riconoscenti.
Giorgio Rampone