RAINA DIVA
Serata d’omaggio a Raina Kabaivanska al Teatro dell’Opera di Roma
Un omaggio come quello che il Teatro dell’Opera di Roma ha offerto a Raina Kabaivanska la sera del 28 novembre scorso, era da tempo dovuto. E noi da ancor più tempo l’avevamo nel cuore. Perché, come lei stessa ha tenuto a sottolineare, quello del Costanzi è stato, ben più d’altri, il “suo” palcoscenico operistico. E qui ella svelò ad un ventenne, quale eravamo, la fisionomia di una grande, vera personalità nell’arte dell’opera lirica. I termini non sono usati a caso: Raina Kabaivanska in quest’arte – che è ben più del mero canto o della mera voce – è stata una delle figure più spiccanti per almeno trent’anni. Alla base di tutto una tecnica d’acciaio, appresa da Zita Fumagalli e da Rosa Ponselle, oltre che da una continua messa a fuoco di se stessa: ciò che le consentiva un gioco di fiati lunghi e lunghissimi, di legature miracolose e di dinamiche sfumate che al suo tempo avevano a rivale la sola Montserrat Caballé. Non possedeva Raina un dominio dell’agilità tale da scendere nell’agone della Belcanto-renaissance; la gamma però arrivava ben più serenamente d’altre al do, talora – ma non volentieri – al re. Le naturali propensioni e le sorti di una carriera che, dopo la Beatrice di Tenda della Scala, si mostrò subito fulminea, ne fecero la musa della Giovane Scuola e del Verismo più intimista. Sì che quel mondo sonoro e scenico in lei trovò il suo acme interpretativo, il suo riferimento massimamente raffinato e perciò rivelatore. D’ una civiltà mai popolana, mai volgare, mai urlata, foss’anche per Nedda o per Giorgetta. E che ha scritto pagine memorabili in quasi tutto Puccini, Tosca per prima (La fanciulla del West più volte aperta e studiata, fu poi richiusa per sempre: fortunatamente), nella sue leggendarie Adriana Lecouvreur e Francesca da Rimini. Qui — nei costumi che Bolognini o Samaritani o altri le riservavano od anche in concerto, negli abiti dell’amatissimo Roberto Capucci – ella diveniva un oggetto d’arte, una scultura o un dipinto o un’affiche di Tiffany, di Lalique, di Mucha magicamente postisi in movimento: E da cui sortiva un canto d’ineffabile e struggente malia: poesia canora d’una décadence, d’un crepuscolo ove il naufragare era come non mai di mirabile dolcezza. Ovviamente anche nei territori a tutto ciò circonvicini – Thaïs e Manon di Massenet a dir poco eccezionali – Evgenij Onegin di Ciaikovski; ovvero più lontani, ma esplorati con somma sapienza: certo Verdi, il Novecento più opportuno e quel Belcanto temuto, ma trionfato (l’Armide di Gluck, la Fausta e il Roberto Devereux di Donizetti), ebbene in tutto ciò la Kabaivanska ha lasciato segni che la storia del teatro d’opera non può dimenticare. Tutto questo di lei (avendolo appreso qui a Roma o altrove) abbiamo nella memoria e appunto nel cuore.
La serata del 28 novembre al Costanzi ha voluto molto di ciò rievocare, nell’occasione della stampa di un libro monumentale e prezioso che a lei, col giusto titolo di Raina Diva, le edizioni Scripta Maneant hanno consacrato. Molti hanno parlato, seduti sul palcoscenico quasi in circolo, come in uno degli ormai rituali talk-show: e quali assai a proposito (il nuovo sovrintendente Giambrone, Carlo Fontana, Adua Veroni), quali invero di meno (quando sentiamo ancora dire della “brutta voce” della Callas – e di Raina? – avremmo voglia di diventar scortesi). E hanno cantato arie e duetti alcuni nomi assai noti della sua scuola, a Siena o a Modena, che dopo il ritiro per Raina è diventata una seconda vita: ed erano Vittoria Yeo, Veronica Simeoni, Andrea Caré. Le signore con i pregi e i difetti che loro conosciamo (e con qualche défaiilance della Yeo in “Casta diva” e qualche suono strano della Simeoni in “Amour! Viens aider ma faiblesse”). Il tenore piemontese con una voce di bella qualità, cui gioverebbe solo dimenticarsi di Del Monaco per diventar ragguardevole. In verità, come all’inizio della serata — con la diffusione di un conquidente “Vissi d’arte” — avremmo voluto sentir maggiormente la voce della Kabaivanska risuonare ancora in quel “suo” teatro. Tuttavia l’ovazione lunghissima al suo ingresso (tutta la sala era in piedi) e gli applausi continui per i suoi interventi, di quell’humour pungente e ironico inimitabile, ovvero di qualche non nascosta commozione, hanno ben compensato e sono apparse le cose più attraenti di una serata che, comunque, è stata una festa per la Diva e per il teatro d’opera tutto.
Maurizio Modugno
Foto: Gianni Grandi / Scripta Maneant