DVOŘÁK Concerto per violoncello BRAHMS Sinfonia N. 2 violino Kian Soltani Wiener Philharmoniker, direttore Franz Welser-Möst
MAHLER Kindertotenlieder (in forma semiscenica) mezzosoprano Sarah Alexandra Hudarew baritono Jason Cox Orchestra Sinfonica di Lucerna, direttore Clemens Heil
MOZART Cassazione KV 63 PROKOFIEV Sinfonia n. 1 “Classica” MOZART Sinfonia K 16 PROKOFIEV Marcia op. 99; Pierino e il lupo op. 67 recitante Anuk Steffen English Chamber Orchestra, direttore Wolfram Christ
MESSIAEN Et exspecto resurrectionem mortuorum London Symphony Orchestra, direttore Simon Rattle NONO No hay caminos, hay que caminar … Andrej Tarkowskij Lucerne Festival Academy Orchestra, direttore Ruth Reinhardt
STOCKHAUSEN Gruppen London Symphony Orchestra, direttori Simon Rattle, Jaehyuck Choi Lucerne Festival Academy Orchestra, direttore Clemens Heil
RAVEL Ma mère l’Oye, Shéhérazade, L’Enfant et les Sortilèges Magdalena Kožená, Patricia Bardon, Jane Archibald, Anna Stéphany, Elizabeth Watts, Sunnyboy Dladla, Gavan Ring,
David Shipley London Symphony Orchestra and Chorus, direttore Simon Rattle
DEBUSSY Quartetto in sol minore CIAIKOVSKI Quartetto n. 1 op. 11 Rolston String Quartet
BERNSTEIN Sinfonia n. 2 “The Age of Anxiety” DVOŘÁK Danze slave op. 72 JANÁČEK Sinfonietta pianoforte Krystian Zimerman London Symphony Orchestra, direttore Simon Rattle
SCHUMANN Arabeske op. 18; selezione dai Fantasiestücke op. 12 SCHUMANN/ LISZT Liebeslied (Widmung) S 566 MENDELSSOHN Andante cantabile e Presto agitato WoO 6; quattro Romanze senza parole; Rondo capriccioso op. 14 pianoforte Dmitry Ishkhanov
BERNSTEIN Serenata per violino e orchestra SHOSTAKOVICH Sinfonia n. 4 op. 43 violino Baiba Skride Boston Symphony Orchestra, direttore Andris Nelsons
STRAVINSKI Divertimento BEETHOVEN Variazioni su “Se vuol ballare” da Le Nozze di Figaro di W.A.Mozart WoO 40 BACH Ciaccona dalla Partita BWV 1004 STRAUSS Sonata op. 18 violino Sebastian Bohren pianoforte José Gallardo
MAHLER Sinfonia n. 3 mezzosoprano Susan Graham Coro femminile e di voci bianche del Gewandhaus, Boston Symphony Orchestra, direttore Andris Nelsons
Lucerna, Lucerne Festival, KKL Konzertsaal, Lukaskirche, Luzerner Theatre Box, 8 – 13 settembre 2018
Seguire anche per pochi giorni il prestigioso Festival di Lucerna (17 agosto – 16 settembre 2018) è come per un bambino entrare in una gigantesca sala giochi. Un po’ come visitare la pinacoteca Rosengart di Lucerna per l’appassionato di Picasso – solo poco più in là dell’impeccabile sala concerti KKL – collezione dove potrebbe persino imbattersi nella signora Angela Rosengart, comodamente seduta vicino alla biglietteria, e che Picasso ritrasse in sei opere.
Al festival di Lucerna si esce dalla routine, e lo star system – salvo alcuni casi – evita di tirare i remi in barca qualora si trovasse nel bel mezzo di qualche tournée, considerata la visibilità e il pubblico internazionale. Si ascolta grande musica, quasi sempre eseguita a livelli altissimi, ci si dimentica del brutto e si riflette su cose belle, sulla bellezza dell’arte che supera l’intrattenimento e sui suoi perché.
In questa breve incursione verso la chiusura, dall’8 al 13 settembre, per sentire le ultime orchestre top, complice il compleanno di Dvořák (8 settembre), veniamo subito illuminati da un fascio di luce abbagliante: il ventiseienne violoncellista austriaco di origine persiana Kian Soltani, vincitore del 2018 Credit Suisse Young Artist Award e del concorso Paulo Cello 2013, interprete del Concerto per violoncello di Dvořák con i Wiener Philharmoniker diretti da Franz Welser-Möst, propone come fuori programma il Lied op.81 n.1 di Dvořák – da cui fu tratto il motivo dell’Adagio del concerto, talora eseguito allo strumento proprio come foglio d’album – in una sua trascrizione con i violoncelli e contrabbassi della filarmonica viennese. L’orchestra, liberatasi fortunatamente del direttore, e che esegue la rielaborazione della parte pianistica, tocca momenti sublimi, fra onde di suono e fraseggi fluidi, articolazioni contemplative ed equilibri appesi a un filo col solista. Semplicemente indimenticabile. Eppure, di orchestre – Wiener inclusi – che suonano bene, benissimo, ne abbiamo sentite, ma che si potesse suonare veramente con tale poesia e ispirazione anche in un accompagnamento di un piccolo pezzo rimarrà memorabile. Sultani non si lascia intimorire dai viennesi, sfoggiando un controllo e una conoscenza dello strumento sorprendenti, appassionato, precisissimo, migliore nel lied che nelle grandi arcate del concerto, tenuto nei recinti della consuetudine seppure senza cadute di tensione. Ingessata e algida la direzione di Welser-Möst, che di per sé non mi ha mai convinto nonostante i mega-contratti che ne hanno segnato la fulgida carriera. Recentemente ho sentito solo Prêtre e Jansons riuscire davvero a essere carismatici con questa storica compagine, riuscendo a incidere veramente sul suono. Impeccabile l’orchestra anche nel concerto, ma non si capiva bene il culmine delle frasi, appiattite in una declamazione monocorde, migliore nella Sinfonia n. 2 di Brahms fra qualche disomogeneità dei fiati e alcuni scorci cameristici. Orchestre come questa mettono a nudo il direttore e vale sempre il principio ineluttabile per cui ogni orchestra, bella o brutta che sia, rispecchia chi la sta dirigendo.
Ci spostiamo rapidamente di fronte al teatro di Lucerna, in una sala appositamente costruita all’interno di un parallelepipedo di legno, detto appunto “Box”, scatola dove è stata allestita una drammatizzazione sperimentale dei Kindertotenlieder di Mahler con l’Orchestra sinfonica di Lucerna diretta da Clemens Heil. Non è prevista la scelta del posto, uno alla volta si viene accompagnati da un musicista, finendo per ritrovarsi in cerchio circondati dagli strumentisti sul fondo, che si spostano tra un brano e l’altro come in una via crucis. Due sono le voci che si dividono i pezzi, in uno scenario buio e ombroso, fra l’indifferenza dei rumori della vita quotidiana registrati che si intersecano fra i brani, tentando di descrivere un mondo in cui l’infanzia non esiste più. Esecuzione a parti reali, sensibile, ma non proprio di gran pregio per l’austerità e l’acustica mutevole. Versione semiscenica discutibile, ma interessante.
È l’infanzia, del resto, l’icona del Festival a essa intitolato (“Kindheit”), analizzata da più prospettive in quanto incarnazione del pubblico del futuro. Su questa linea, la sorpresa della domenica mattina è Pierino e il lupo di Prokofiev con la tredicenne attrice recitante Auk Steffen e la English Chamber Orchestra (ECO) diretta da Wolfram Christ, già prima viola dei Berliner Philharmoniker. Sorpresa, perché la storia per i più piccoli viene solitamente recitata da attori adulti, comici o personaggi dello spettacolo, credendo, erroneamente, che la maggiore età sia per forza più convincente, nonostante nulla sia tuttavia più magico della purezza di un bambino. Anche nella trascrizione della celebre Marcia op. 99 di Prokofiev non c’era con Christ l’agilità concertante di Abbado, né tutta l’energia cinetica della pulsazione ritmica di Prokofiev, ma la ECO ha un’attenzione capillare al suono e all’assieme, persino all’esecuzione storicamente informata con cui il primo violino sfoggia un meraviglioso passo solistico nell’Adagio della Cassazione K 63 di Mozart, capolavoro giovanile (alla faccia di certi rivoltanti detrattori mozartiani ormai fuori moda). E siccome a Lucerna amano anche il Mozart ragazzino, ecco la Sinfonia K 16: Christ è un ottimo concertatore, mostrandoci ogni meraviglia di queste pagine giovanili.
A queste linee programmatiche scorrono parallele quelle dedicate alla musica del ‘900 e a Stockhausen, per cui arrivano i rinforzi. Giungono Simon Rattle e la London Symphony Orchestra (LSO), protagonisti di tre serate coi fiocchi. È persino incredibile vedere dal vivo la facilità con cui Rattle si muova in soli tre giorni fra partiture di estrema complessità e diversità neppure facilmente in repertorio. Nell’asprissimo Et exspecto resurrectionem mortuorum di Messiaen per orchestra di fiati persino l’attacco di una sola nota è magico, all’intero di un fraseggio minuzioso e raffinatissimo dalla declamazione perfetta. Fiati della LSO da leccarsi i baffi per la bellissima pulizia di suono, di vibrato, l’eccezionalità delle prime parti soliste nel rapportarsi fra loro. E si risolve perfettamente il complicatissimo Gruppen di Stockhausen per tre orchestre, inserito nella retrospettiva “Universo Stockhausen” in occasione del suo 90° compleanno, con tre direttori di cui è Rattle il coordinatore principale. Alla LSO – divisa in due e diretta anche dal bravo giovane coreano Jaehyuck Choi – si affianca la giovanile orchestra della Lucerne Festival Academy diretta da Clemens Heil, formazione che con padronanza assoluta, esegue, dopo Messiaen, No hay caminos, hay que camiar…Andrej Tarkovskij di Luigi Nono, guidata molto bene dalla giovane Ruth Reinhardt. Rarissima occasione non solo per mostrare come i giovani possano suonare ottimamente la musica del ‘900, ma soprattutto per cogliere la spazialità di questa complessa partitura grazie alla magnifica acustica della sala concerti del KKL. Nella breve pausa mi alzo per guardare la sala, e per rimettermi in fila al quarto posto chiedo di passare: “Sorry”. “Oh, yes”, mi risponde Rattle alzandosi, che nel frattempo si era accomodato di soppiatto per ascoltare Nono senza che me ne accorgessi. Gelo. Avrei dovuto chiedergli subito un’intervista…
La magia dell’infanzia ritorna con Ravel, e ci sono voluti proprio Rattle e la LSO per portarci in un mondo al di fuori della realtà. Ecco la fiaba, in Ma mère l’Oye e L’Enfant et les Sortilèges, con Magdalena Kožena che canta anche Shéhérazade sfoggiando una delicatezza incommensurabile. Un Ravel come non l’abbiamo mai sentito, in una plastica flessibilità dove l’emozione fatica a orientarsi. In un fraseggio da miniaturista, entro cui la perfezione dell’orchestra ci fa percepire minime inflessioni e sussurri e persino il fortissimo è delicato, il gioco timbrico concertato da Rattle fonde archi e fiati in un unico suono. La naturalezza incredibile del profilo narrativo sgorga in Ma mère l’Oye e sfocia in Shéhérazade fra trasparenze magiche. Le vere magie timbriche ci inondano poi in l’Enfant intersecandosi, senza trascurare la valenza ritmica in un sussurro di percezioni. Tre mondi con identità comunque indipendenti, ben diversificati, ma in un flusso concertante continuo, entro cui Rattle riunifica tutto in una leggerezza sublime che conserva all’interno una tensione e una solidità strutturale incredibili. Cambio d’abito, e il giorno dopo si affianca ai britannici Krystian Zimerman, che dopo ben ventisei anni rimette piede, anzi mani (e anche voce), al celebre festival, per ritornare su un “vecchio” pezzo, la Sinfonia n. 2 “The Age of Anxiety” di Leonard Bernstein per pianoforte e orchestra, in occasione del centenario della nascita del musicista americano – di cui proprio Zimerman fu il primo esecutore dopo l’autore – che proprio con Rattle ha registrato da poco per la DG insieme ai Berliner Philharmoniker, e che continua ad eseguire con la LSO. La non facile partitura scorre fortunatamente con naturalezza, riportata dal pianista a un mondo intimista di delicate ossessioni, un colloquio interiore che si sposava perfettamente con le trasparenze della LSO in una dimensione sinfonica alla pari. Ma Zimerman non passa per nulla inosservato, anzi. Mica ritorni dopo quasi trent’anni senza suonare ancora qualcosina. Inondato da applausi, intrattiene il pubblico con sorpresa di tutti, organizzatori inclusi, in un insolito e lungo discorso politico contro l’esportazione di armi nei paesi in guerra civile, insolito anche per questo festival. Zimerman, che ha da sempre sostenuto la democrazia svizzera dopo l’imposizione della dittatura in Polonia, ringrazia quindi le forze democratiche che si oppongono alla recente attenuazione del divieto di esportazione – solo una piccola parte delle esportazioni – ritenendo che tale risoluzione danneggi la credibilità della Svizzera stessa. Ha ricordato la sua collaborazione con Bernstein durata ben 17 anni, e di cui è stato l’ultimo solista, e l’impegno del direttore americano contro la violenza, le armi e le guerre. Zimerman si espose pubblicamente anche in altre occasioni, esternando il proprio dissenso negli anni ’90 contro i test nucleari sull’atollo di Muruora in Francia, lo spiegamento di truppe in Iraq, e nel 2009 contro i piani statunitensi sull’installazione di uno scudo missilistico nella nativa Polonia. Ringrazia i tiepidi applausi suonando in fuoriprogramma il Preludio op. 1 n. 1 di Szymanowski. Struggente perfezione. Era la serata giusta, almeno.
Rattle, dal canto suo, poliedrico e instancabile, tocca due brani a lui cari, le Danze slave op. 72 di Dvořák e la Sinfonietta di Janáček. L’occhietto ruffiano è abolito, le danze rimangono raffinata sublimazione dello spirito popolare senza accenti rusticheggianti, mentre i solisti della LSO fanno brillare isole cameristiche. Anche in Janáček vive una cantabilità interiorizzata, dove Rattle realizza un’autentica drammatizzazione del materiale motivico e armonico, alla luce dell’esperienza teatrale di Janáček stesso.
Quel turbamento che assale dopo esperienze d’ascolto come queste e che fa nascere la domanda se tutto questo sia un’eccezione, o se effettivamente nel mondo concertistico dovrebbe sempre essere così o quantomeno mirare a tanto (perché questa è musica, il resto sono tentativi di imitarla), trova tregua nei concerti “cuscinetto” del mattino alla Lukaskirche, chiesa poco distante, dove l’aura concentrata della musica da camera ci prepara a nuove emozioni sinfoniche serali. Ma quando ascoltiamo il livello altissimo del giovanissimo americano Rolston String Quartet, primo premio al Concorso Banff 2016 per quartetto d’archi, saltiamo sulla sedia. Un equilibrio impeccabile ed emozionante, una flessibilità di fraseggio e di uso del vibrato fanno letteralmente rinascere il Quartetto in sol minore di Debussy, affrontato in modo critico con una concezione acustica liberata da impostazioni di eccessive pienezze legate a vecchie concezioni sul suono allo strumento ad arco. Profondità e leggerezza con virtuosismo. Così, gli aspetti più appassionati del Quartetto n. 1 di Ciaikovski si accostano a intenzioni contemplative e a un lirismo commosso. Ovviamente senza la minima percezione di fatica e difficoltà, come bere un bicchiere d’acqua.
Non è da meno il duo con Sebastian Bohren al violino e José Gallardo al pianoforte, anch’essi al debutto nel festival, in un programma sorprendente per varietà di atteggiamenti. Un dominio stilistico di raro riscontro dà enfasi alla modernità di Beethoven che legge Mozart nelle Variazioni su “Se vuoi ballar” da Le nozze di Figaro, si accosta perfettamente al Divertimento di Stravinski e alla Ciaccona di Bach – percorsa da Bohren secondo una continuità che ne evidenziava le arditezze polifoniche senza alcuna retorica e con un parsimonioso uso del vibrato storicamente informato – fino alla difficile Sonata di Strauss.
Meno riuscita e un po’ forzata la proposta del pianista tredicenne russo emigrato a Malta Dmitry Ishkhanov, in un piccolo recital di pezzi brevi, sempre nell’ambito della linea programmatica sull’infanzia. Il giovanissimo è ancora acerbo e troppo distante dalle problematiche schumanniane e romantiche. Eppure, il tema conduttore del festival sull’infanzia insiste deliberatamente sui bambini prodigio nel percorso ad hoc “Wunderkind”, risultato di una presa di posizione netta e audace che riflette e ricerca tuttavia una certa apertura mentale piuttosto che esibizionismi da baraccone.
Ripreso fiato, entra in scena la Boston Symphony Orchestra (BSO) col suo bravissimo e applauditissimo direttore principale Andris Nelsons, in due dei dodici concerti previsti per la tournée in otto città europee. Qui le iperboli sono inevitabili. Giungiamo faticosamente alla fine dell’ascolto dell’ostica Serenata per violino e orchestra di Bernstein con l’impeccabile Baiba Skride solista, salvati dalla precisione dell’orchestra e dalla tensione continua in cui Nelsons intinge la partitura, definendo caratteri e temperamento di una dimensione psicologica profonda, fra minuziose differenze dinamiche e agogiche. C’è una leggerezza plastica stupefacente, ma manca stranamente con Nelsons la peculiare vena ritmica di Bernstein, di per sé inconfondibile, in questa pagina di ambigua collocazione stilistica. Altro mondo la monumentale Sinfonia n. 4 di Shostakovich, che dalle mani di Nelsons e dalla BSO si trasforma in una galassia di visioni e inquietudini. Una tensione totalizzante ne sostiene la lunghezza, con slancio appassionato Nelsons definisce ogni dettaglio mostrandoci il peso della storia, di un passato senza speranze. Lo sostiene un autentico virtuosismo orchestrale: profondità degli ottoni con trombe da guerre stellari, acrobazie dei violini, perfezione dello staccato di celli e bassi, percussioni plastiche – solo per fare alcuni esempi – stratificazioni sonore che esaltano la genialità dell’orchestrazione e ogni atteggiamento espressivo, guardando persino a Mahler in una sorta di disfacimento organizzato. Ovazioni.
Se la Quarta di Shostakovich rivela inquietudini dallo sfondo sociopolitico, con la Sinfonia n. 3 di Mahler, Nelsons si muove fra tensioni cosmiche, la concertazione si fa più aspra fin da subito, non esiste nota che non si collochi in un preciso universo comunicativo nel quale già dopo i primi minuti si presagisce grazie a Nelsons il senso di deperimento e di destino ineluttabile. Ciò che non è ordinario spunta battuta per battuta come una minaccia per un ordine costituito già al tramonto. Riascoltando Mahler a Lucerna, ci si chiede poi chi raccoglierà mai l’eredità mahleriana di Abbado, il suo approfondimento concettuale e spirituale degli ultimi anni. Nelsons è uno dei maestri più giovani che, come Paavo Järvi, Daniel Harding, Kirill Petrenko, continuano a dare un futuro alla direzione d’orchestra, tanto difficile sul podio – per la tecnica, l’esperienza, la conoscenza, l’istinto, la fantasia, lo studio – quanto nelle public relations, spesso indispensabili per sostenerne il ruolo. Non ancora abbastanza invitato in Italia, si rivela musicista ultrasensibile, che valorizza ogni elemento, ogni figura, nulla gli sfugge. Evidenzia le ossessioni ritmiche di Mahler in modo analitico, le linee grottesche di certi temi, la chiara solidità dei cambi di armonia, le funzioni timbriche, scolpendo una monumentale Terza, totalmente proiettata verso il 900, insistente, pungente, attraversata da inquietudini di ogni sorta dove le marce diventano surreali. Nel minuetto tutto si trasforma incredibilmente, il suono diventa sognante, levigato, privato di asprezze anche negli accenti, lasciandoci col fiato sospeso fino all’apnea. La BSO vola in alto con un suono lucente e abbagliante, si muove fra trasparenze e chiarezza contrappuntistica esemplare. Solisti davvero eccezionali, come il primo trombone che disegna un melodismo poetico mai sentito, seguito dal corno inglese, come se parlasse, nel primo movimento, o la tromba nel terzo, i corni nel quarto. Non si tratta solo di incontri di eccellenze individuali, qui l’eccellenza non è solo tecnica ma un modo di vivere e tradurre l’esperienza professionale del fare musica in orchestra, del saper fare e del sapere essere, con la responsabilità e consapevolezza piena della grandezza dell’opera d’arte cui si sta dando vita istante per istante. Il mezzosoprano Susan Graham si aggiunge nel quarto movimento con profondità e drammatica articolazione di ogni sillaba; come un’apparizione svettano i fanciulli del Gewandhauskinderchor e il coro femminile del Gewandhaus di Lipsia, e la connessione col finale è magica. Impossibile descrivere come Nelsons sia riuscito a far rinascere in ogni battuta di questo fluviale epilogo lo spuntare continuo di idee nuove, quasi interrogandoci su come Mahler abbia potuto sviluppare e sostenere così a lungo temi e tensioni. La contemplazione è in continuo e inarrestabile divenire, privata di riprese, intersecandosi con un’agitazione tutta interiore, le funzioni armoniche esaltate nella loro forza comunicativa, fra respiri e magie di attese. Era poesia assoluta, sconvolgente, momenti che diventano esperienze conoscitive impagabili. Il pubblico si lancia in ovazioni oceaniche, lunghi applausi in piedi, ovazioni persino per le prime parti dell’orchestra, tromba e trombone soprattutto, come quasi mai abbiamo visto.
Mirko Schipilliti
(Foto: Peter Fischli / Patrick Huerlimann)