MOZART Die Entführung aus dem Serail L. Ruiten, S. Devieilhe, M. Peter, M. Schmitt, T. Kehrer, C. Obonya; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Zubin Mehta regia Giorgio Strehler ripresa da Mattia Testi scene e costumi Luciano Damiani
Milano, Teatro alla Scala, 29 giugno 2017
La contemporanea riproposta, nel cartellone scaligero, di due spettacoli risalenti agli anni ’60, ossia questo Ratto, concepito da Strehler e Damiani per il Festival di Salisburgo nel 1965 e la Bohème zeffirelliana, di due anni precedente, poteva suggerire una sorta di — involontaria? — operazione nostalgia, una sorta di “come eravamo”, nonché un tranquillo rifugio per quel pubblico, specie di turisti, diffidente verso le “regie moderne”, qualsiasi cosa questa espressione voglia dire. Se l’allestimento dell’opera pucciniana colpisce ancora per la sublime bellezza, che si fa subito atmosfera, dei quadri centrali, ma risulta sempre più indigesto per l’affastellarsi di persone, animali e oggetti in scena, per una regia-non regia (e musicalmente, fatta salva la buona direzione di Evelino Pidò, non spiccava per meriti particolari: particolarmente censurabile, anzi, il Rodolfo di Fabio Sartori), tutt’altro discorso va fatto per questo Ratto. Anzitutto lo spettacolo è stato molto meno sfruttato a Milano, perché dopo la prima comparsa nel 1972 vi è tornato solo nel ’78 e nel ’94, tanto che per un’intera generazione (la mia, per esempio), risultava sostanzialmente “nuovo”; e poi l’incredibile fatto che sul podio ci fosse ancora Zubin Mehta, già protagonista delle prime recite salisburghesi del ’65, dà veramente l’idea di un sublime, affascinante relitto del passato. Le quinte scorrevoli, il fondale lattiginoso con la barca che va e viene, le luci soffuse e pastellate, le innumerevoli pose “stile Piccolo Teatro”, il rigido alternarsi di recitazione in piena luce e arie solistiche al buio, il teatro nel teatro: tutto bello, tutto affascinante, ma tutto, mezzo secolo dopo, prevedibile e scontato. E Mehta dirige sostanzialmente come allora (quando però c’erano in buca i Wiener, quei Wiener…): tempi rilassati, contrasti smussati, sonorità flou, nessun problema di ordine filologico (salta “Wenn der Freude Tränen” di Belmonte, la grande aria di Konstanze è in versione corta, di recuperare la “Marcia dei giannizzeri” ovviamente nemmeno l’idea), sostegno amorevolissimo al canto (quei larghi rallentando in “Ach, ich liebte” per aspettare i sopracuti della primadonna!). Naturalmente risultano molto affascinanti le pagine più elegiache, introspettive dell’opera, dall’aria “Traurigkeit” al finale secondo: ma l’impressione di un Mozart vecchiotto, nello spirito e nella lettera, è davvero impossibile da scansare.
Il cast era di un livello discreto, senza entusiasmare: la migliore appare la Blondchen spiritosa e vocalmente promettente di Sabine Devieilhe, mentre la Konstanze di Lenneke Ruiten ha ottimi sopracuti, a fronte di un passaggio superiore e primi acuti più opachi, ma soprattutto una lamentosità di fondo che non seduce l’ascoltatore. Il duo tenorile vedeva prevalere lo squillante Pedrillo di Maximilian Schmitt sul Belmonte di Mauro Peter (che fa gran fatica in “Ich baue ganz”), mentre Tobias Kehrer è l’ennesimo Osmin privo di tutte le note della difficile parte, scritta per Johann Ignaz Ludwig Fischer, “dotato […] di una tecnica vocale non meno che straordinaria”, come scrive Francesco Degrada nel programma di sala, in un saggio da additare a modello per chiunque scriva di cose musicali. Successo completo, caloroso: l’operazione nostalgia ha fatto centro.
Nicola Cattò