CHERUBINI Médeé M. Rebeka, S. De Barbeyrac, N. Di Pierro, A. Bré, M. Russomanno, G. Doveri, M. Gaudenzi; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Gamba regia Damiano Micheletto scene Paolo Fantin costumi Damiano Michieletto
Milano, Teatro alla Scala, 14 gennaio 2024
Fra le opere che hanno contribuito ad edificare il monumento, aere perennius, del mito di Maria Callas, Medea è senz’altro tra le prime: le 31 recite dal vivo tra il 1° maggio 1953 (Firenze) e il 3 giugno 1962 (Milano), oltre all’incisione in studio (poco significativa, va detto…) di un’opera che sia prima che dopo di lei è sempre stata un piacere raffinato per intenditori, ne hanno esaltato come pochi altri titoli la grandezza di cantante-attrice, sulla quale è inutile qui spendere ulteriori parole. Ma, come ogni appassionato sa, la Callas non cantava l’opera che Cherubini scrisse per il Théâtre Feydeau di Parigi e che ivi andò in scena il 13 marzo del 1797, bensì una sua riscrittura ottocentesca, tradotta in italiano e con i recitativi musicati da Franz Lachner che prendevano il posto degli originali dialoghi; oltre alla mutata prospettiva estetica, che spostava l’orologio stilistico della partitura almeno 30 anni avanti, va detto che le esecuzioni callasiane prevedevano una quantità di tagli, sui numeri musicati da Cherubini, sempre piuttosto abbondanti, fino a sfigurare la natura di alcuni di essi (ad esempio il finale ultimo). Questa Medea è quella che, magari con una consapevolezza stilistica più matura, è sempre apparsa nei teatri fino a pochissimi anni fa (avevo recensito una interessante produzione del Circuito Lombardo del 2010, con una giovanissima e già splendida Eleonora Buratto come Glauce): finalmente la Scala ha deciso di rifarsi alla lezione originale e di proporre la Médée di Cherubini.
Affrontando la quale, un artista intelligente di talento e cultura come Damiano Michieletto si è posto anzitutto il problema dei dialoghi: lunghi, in alessandrini francesi, e scomodi per i cantanti d’opera (difatti, in Carmen è d’uso ridurli a monconi quasi laconici). Invece di propendere per una potatura drastica, Michieletto ha pensato di ribaltare il punto di vista e di far scrivere al drammaturgo Mattia Palma dei brevi scambi tra i figli di Medea e Giasone, che da comprimari muti e passivi della vicenda ne diventano attori principali. Un’idea certo interessante, ma che comportava un ribaltamento continuo della prospettiva narrativa, tra interna ed esterna (Michel Chion avrebbe detto intra- ed extradiegetica…), e che alla lunga mi è sembrata funzionare poco: tagliare il nodo gordiano, quello appunto dei dialoghi, è una soluzione certo efficace, ma forse semplicistica. Anche se questi testi, affidati a voci pre-registrate, erano molto belli e suggestivi. L’unico neo, però, in uno spettacolo altrimenti memorabile: ambientato in una asettica cornice alto-borghese, in una generica contemporaneità, vede l’irruzione dell’elemento perturbante, ossia Medea, a sporcare — in senso concreto, con del carbone che a poco a poco invaderà l’intera scena — l’equilibrio psicologico e sociale esistente. Equilibrio che, d’altronde, tanto saldo non è: la stessa Dircé (la Glauce della Medea in italiano) durante la sua aria è in preda a una crisi di nervi, nel non vedersi riconoscere come madre dai figli di Giasone, e il suo ossessivo strofinarsi le mani ne dimostra l’irrequietezza. Perché lo spettacolo di Michieletto (con le perfette scene di Paolo Fantin) vive di grandi momenti, di un uso sontuoso delle luci a scavare le dimensioni psicologiche e gli abissi umani (un finale secondo alla Hopper; la scena della caccia alle streghe e del quasi rogo di Medea, interrotto da Creonte), ma anche di minimi dettagli, che passano da un abito pacchiano per Giasone, che dimostra così la sua non perfetta integrazione nel mondo degli happy few di Creonte e famiglia, al carillon-giostra regalato ai figli di Medea, che qua e là fa gocciolare spettralmente il tema dell’aria “Dei tuoi figli la madre” (rectius: “Vous voyez de vos fils”). Il finale secondo, poi, che vive di un doppio livello tra il rito nuziale dietro le quinte e la disperazione di Medea davanti, è condotto con una ricchezza di particolari e una cura del singolo movimento addirittura superbi: anticipazione, in questo senso, dell’uccisione dei figli, che viene trasmessa su uno schermo, come se fosse una BabyCam, ribaltando la prospettiva classica della tragedia greca, qui come fusa con le strutture dramma borghese, la prima provocando una sorta di cortocircuito nel secondo. Uno spettacolo difficile, forse, da descrivere, ma dalla potenza emotiva addirittura travolgente: da vedere e rivedere.
Dopo un’ouverture poco a fuoco e dalle sonorità squilibrate, la direzione di Michele Gamba si precisa nei suoi dettagli, e dona finalmente un volto nuovo alla partitura di Cherubini: che anziché apparire come un fratello minore di Beethoven (un momento per tutti: l’impressionante preludio al terzo atto) chiarisce la sua natura stilistica che deriva da Rameau e Gluck, con un suono affilato e sferzante, un’articolazione nettissima e talora furibonda, e un colore livido, ferrigno, che non cede mai alla facile bellezza melodica (neppure nei grandi soli di flauto e fagotto, nelle arie rispettivamente di Dircé e Néris). Ma Gamba è anche un superbo accompagnatore (nel senso più nobile del termine), tenendo sempre presenti le esigenze dei cantanti: soccorrendoli alla bisogna (ad esempio, recuperando il tenore che si era clamorosamente perso nella sua aria), ma soprattutto instaurando con loro (ossia con la protagonista: gli altri contano poco in quest’opera) un dialogo fatto di dettagli, di stimoli, di idee continue. Se per Gamba questa Médée contava come esame di maturità scaligera, la promozione è con i voti massimi.
Parlare dei cantanti vuol dire parlare essenzialmente di Marina Rebeka: perché il Jason di Stanislas de Barbeyrac è apparso vocalmente affaticato, né stilisticamente troppo consapevole, perché Nahuel Di Pierro era un Créon modesto e Ambroisine Bré una Néris ai limiti dell’udibile. E anche perché Martina Russomanno (Dircé), già eccellente Eudoxie nella Juive a Torino, mi è parsa troppo tesa al suo debutto scaligero, e le pur eccellenti Mara Gaudenzi e Greta Doveri (le due ancelle-amiche) vedevano esaurito il loro compito dopo una mezz’oretta. Chi mi legge su queste pagine (digitali o cartacee) sa della mia immensa stima per Marina Rebeka: dopo la prova di ieri sera questo sentimento è ancora maggiore, perché il soprano lettone come raramente le è capitato ha annullato la propria personalità in quella di Médée, con un coinvolgimento addirittura mozzafiato, ottenendone un trionfo memorabile. Tessitura difficilissima, molto bassa ma con improvvisi scarti all’acuto, che insiste su un declamato di matrice gluckiana e che difficilmente sembra compatibile con il modo di cantare schiettamente italiano della Rebeka: eppure, alla prova dei fatti, la puntigliosità dell’analisi, la chiarezza della dizione, l’intensità dell’accento e la perfetta consapevolezza stilistica messe da lei in campo le hanno consentito di stravincere la prova. La dimensione demoniaca, ctonia della maga conviveva con la tenerezza materna, il dolore della donna offesa con la dignità della principessa detronizzata: e la completezza della partitura in questo era davvero essenziale, ad esempio in un finale che non si limita ai pochissimi versi che cantava la Callas, ma che sfocia, dopo l’assassinio dei figli, in un ampio recitativo accompagnato tra lei e Giasone, quindi in una lunga coda orchestrale, che conclude la catastrofe. E in un certo senso la storia interpretativa dell’opera di Cherubini (ri)comincia da qui.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano, Teatro alla Scala