VERDI Messa da requiem soprano Masabane Cecilia Rangwanasha mezzosoprano Elīna Garanča tenore SeokJong Baek basso Giorgi Manoshvili Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 4 febbraio 2024
Ascoltare la Messa da requiem di Giuseppe Verdi, come per tutti i capolavori, anche all’ennesima volta è occasione per nuove e diverse constatazioni della grandezza del suo autore. Soprattutto quando l’eccezionalità dell’esecuzione palesa appieno di tal partitura sia la possente concezione generale, sia una quantità dei dettagli, invero d’inesausta ricchezza. Così è stato al Parco della Musica di Roma il 3, 4 e 5 febbraio, in omaggio a Claudio Abbado nei dieci anni dalla scomparsa, grazie ad un sir Antonio Pappano in speciale stato di grazia. Non era la prima volta che lo ascoltavamo nel sommo testo sacro verdiano, eppur ci è parso che ora egli abbia attinto un livello d’esegesi musicale e spirituale forse inaudita (nel senso letterale dell’aggettivo). Vi spieghiamo perché. Senza peraltro tornare sul tema del sacro in Verdi: ne abbiamo scritto a sufficienza (cfr. il nostro programma di sala per i Quattro Pezzi Sacri al Maggio Fiorentino nel 2022 e la recensione della Messa da Requiem diretta da Daniel Oren sempre a Santa Cecilia nel 2019, pubblicata sul numero 313 di MUSICA). Crediamo entrambe le volte d’aver fatto giustizia (in questo ci aveva preceduto il libro di Paolo Di Nicola Un credente in maschera: viaggio spirituale nell’opera di Giuseppe Verdi) di quanti ancora si sbracciano, con qualche stantio sentor di sudato, onde esibire, come Sanson la testa di Luigi XVI, l’irreligiosità e l’anticlericalismo di Verdi. Ora, nel ribadire che Verdi nel suo Requiem conduce a forma d’arte eccelsa quell’ “appello al Mistero”, quelle domande fondamentali e terribili sull’Uomo e su Dio, che son naturali in ogni spirito senziente e che perciò si fa (come Beethoven) “voce dell’universale attesa di redenzione” (e che in questo non c’è alcun “laicismo”, ma casomai il suo contrario), vogliamo aggiungere solo un’ulteriore considerazione. Per la quale ringraziamo di cuore sir Tony. Poiché egli ha diretto la Messa da Requiem in un’accezione di totale italianità: Markevitch, Karajan, Bernstein, Abbado, Temirkanov, lo stesso Giulini, non rinunciavano ad alcuni rinvii (pochi o molti a seconda dei casi) o ad una koinè musicale europea o a culture proprie e specifiche. Basti pensare a quanto Berlioz ci sia nelle versioni di Markevitch e di Bernstein. Pappano è profondamente, intensamente “nostro”: la lingua ch’egli parla in musica è l’italica, le ascendenze ch’egli vi mostra sono Cherubini, Rossini e Mercadante; il respiro architettonico e i colori sono quelli di Bramante, Michelangelo, Tiziano, Bernini. L’afflato poetico che vi spira è quello del Foscolo, dell’Alfieri, del Manzoni ovviamente. E se noi ben pensiamo a quell’anno che corre fra la morte di quest’ultimo e la prima esecuzione del Requiem il 22 maggio 1874: e a quanto della storia d’Italia vi era ormai pervenuto a pacificazione e composizione, ad una possibilità di retrospezione serena e accigliata al tempo stesso, ebbene allora noi possiamo ben comprendere che la Messa da requiem di Verdi non è solo l’omaggio postumo all’autore dei Promessi sposi, ma il più nobile e commosso epicedio scritto da un uomo e levato all’Altissimo sui morti dei Risorgimenti, delle Guerre d’Indipendenza, delle barricate cittadine e delle grandi battaglie in campo aperto, degli uccisi e degli uccisori, degli invasori, dei liberati. Un epicedio corale e drammatico, personale e teatrale, una summa di tutte le preghiere, i cori, gli schianti patriottici, le sublimi parole sceniche, l’infinita pietas pensate, fatte musica da Verdi e consegnate alla storia: dal Nabucco alla Battaglia di Legnano, dal Macbeth all’Aida, da Ernani a Les vêpres siciliennes, alla Forza del Destino.
Qui nel Requiem inoltre l’autore stesso avanza quelle sue domande e quelle sue paure di cui sopra dicevamo. Ma con indefettibile speranza, con lo stesso atteggiamento che gli ha fatto scrivere – al posto d’un suicidio – “Non imprecare, umiliati”, con una fiducia nella Misericordia in cui egli, come Dante da Virgilio, apertamente vuol farsi condurre dal venerato Alessandro Manzoni.
Pappano, l’Orchestra e il Coro superbi di Santa Cecilia ci hanno rivelato tutto ciò in modo talmente palese da togliere il fiato. E il lungo silenzio dopo l’ultimo accordo lo diceva ancor più del terremoto d’applausi che immantinente si è scatenato. Bene assai i quattro solisti, pur dicendo che la bravissima Rangwanasha (neppur trent’anni) è appena acerba, che la Garanča è meravigliosa, ma forse non è una voce verdiana, che SeokJong Baek è stato assolutamente impeccabile e che il solo Manoshvili è parso a tratti un po’ incerto. Ma che importa? Era una Messa da requiem che comunque non dimenticheremo.
Maurizio Modugno