BELLINI I Capuleti e i Montecchi J. Park, L. Oropesa, M. Crebassa J. Xiahou, M. Pertusi; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttrice Speranza Scappucci regia Adrian Noble scene Tobias Hoheisel costumi Petra Reinhardt
Milano, Teatro alla Scala, 23 gennaio 2022
Nel corso della Sinfonia, Adrian Noble mette in scena un antefatto dell’opera: Romeo e i suoi srotolano nottetempo uno striscione che rivendica «Libertà per i Montecchi», ma vengono sorpresi dai Capuleti, e nella rissa che ne consegue Romeo uccide il fratello di Giulietta. Questa visione comporta due conseguenze: innanzitutto le due fazioni non sono semplicemente rivali, ma una sta prevalendo sull’altra, in un clima generale di sopraffazione più che di semplice contrapposizione; e quando Romeo entra in scena travestito da ambasciatore dei Montecchi, col cadavere ancora fresco del rivale a vista, proponendo se stesso a Capellio come «un altro figlio», l’eroe della vicenda non può che apparire o molto cinico o molto inconsapevole. Ma direi che la visione del personaggio proposta da questo allestimento lascia propendere decisamente per quest’ultima lettura: Romeo infatti è poco più che un ragazzo, la cui acerbità viene ulteriormente accentuata dall’atteggiamento scenico, quasi carente di intima convinzione, che gli impone Marianne Crebassa; mentre Giulietta appare subito più matura, amaramente consapevole di essere prigioniera del piedistallo sul quale viene posta (letteralmente, in uno splendido abito da sposa da Diva del cinema muto), ovvero del suo status di fanciulla della buona società, schiava «del dovere, della legge e dell’onore», come confessa lucidamente nel duetto con Romeo (un legame qui rafforzato dalla ripetuta apparizione del fantasma del fratello).
In tali contrasti la vera paralisi in cui si dibattono I Capuleti e i Montecchi, opera del non prendersi e non lasciarsi, dell’eterno minacciare e mai colpire (anche se la regia cerca invero di aggiungere un po’ di pepe all’azione) appare intimamente giustificata, ed è questo il contributo principale dell’allestimento, nonostante l’ormai abusata ambientazione negli anni Trenta (che a teatro ormai sembrano andar su tutto, come il nero per gli abiti) e qualche momento che stride con la musica (movimenti buffi dei camerieri durante la festa nuziale, la scena di miseria e di violenza sovrapposta al sublime preludio del duetto tra Romeo e Tebaldo). Le scene di Tobias Hoheisel hanno offerto cornici suggestive, come il salottino sul quale si svolge in intimità il duetto tra Romeo e Giulietta, o la nevicata che avvolge il corteo funebre di Giulietta; altrettanto importanti per l’esito dello spettacolo, però, le tracce dell’esperienza teatrale concreta di Noble (da attore, regista e direttore artistico della Royal Shakespeare Company), che si è notata nella gestione dei movimenti dei personaggi, mai abbandonati a se stessi in un’opera drammaturgicamente carente proprio per la staticità delle interazioni tra i protagonisti. Eppure opera di svolta, importantissima nell’evoluzione belliniana, malgrado la fretta nel comporla e la gran quantità di autoimprestiti: a trentacinque anni dall’edizione Muti/Pizzi, era giunto decisamente il momento di rivederla alla Scala.
Si è accennato alla concezione di Romeo incarnata dalla Crebassa, agli antipodi dunque dell’eroe volitivo proposto ad esempio da una Joyce DiDonato (della quale peraltro non può eguagliare l’accento per «La tremenda ultrice spada»): se in effetti inizialmente il mezzosoprano occitano poteva destare qualche perplessità, il suo personaggio è risultato in crescendo già nel duetto con Giulietta, raggiungendo l’apice di intensità nella scena conclusiva, grazie alla compostezza e alla mestizia connaturate al suo canto, capace di creare commozione autentica in frasi come «Restarmi io deggio eternamente qui» o «Vivi, ah! Vivi, e vien talora / sul mio sasso a lagrimar». Perfetta per questa visione registica è risultata la Giulietta di Lisette Oropesa, elegante ma vulnerabile nella duplicità dei sentimenti: l’amore anche sensuale per Romeo da una parte, dall’altra il legame incoercibile che le impedisce di abbandonare il padre (intensissimo l’attacco di «Ah non poss’io partire»). Grazie alla flessibilità vocale e alla sensibilità del soprano americano, la scena del primo atto e «Morte io non temo, il sai» sono apparse davvero toccanti in ogni singola frase; sono spiaciuti soltanto – peccato assai veniale – i marcati assottigliamenti timbrici sui Si acuti della cabaletta citata.
Meno appagante il comparto maschile del cast. Il cinese Jinxu Xiahou ha mostrato subito buone qualità nella scena di Tebaldo del primo atto: il timbro è piuttosto bello e la dizione assai eloquente, ma l’emissione non è pulitissima e il tenore non ha saputo davvero elettrizzare nella cabaletta, anche per il tempo staccato, un po’ troppo indugiante. Imponente il materiale di Jongmin Park (Capellio), ma canto e dizione troppo poco rifiniti per la linea belliniana; a tradire lo stretto pedigree shakespeariano del regista, infine, Lorenzo qui non è medico come vorrebbe il libretto, ma un religioso come nella tragedia del Bardo, e Michele Pertusi è ancora in grado di proporne un’incarnazione autorevole, anche se non propriamente belcantistica.
A rafforzare la supremazia dell’elemento femminile nell’esecuzione musicale, la direzione di Speranza Scappucci, che sostituendo Evelino Pidò ha vissuto il suo battesimo scaligero: forse proprio per non aver seguito la produzione fin dall’inizio, la sua prestazione ha vissuto di luci ed ombre, a tratti convincente negli slanci e nei lirismi, altre volte un po’ troppo condiscendente nei confronti dei cantanti, particolarmente in un duetto tra Romeo e Giulietta condotto a strappi. Si è apprezzata tuttavia la dote speculare di saper sostenere il canto, compreso quello delle eccellenti prime parti dell’orchestra, qui come noto impegnatissime; mentre il coro, a causa delle mascherine, non ha potuto dispiegare appieno l’inebriante impatto sonoro che gli è consueto.
Recita domenicale pomeridiana a teatro pieno: franco successo soprattutto per il côté femminile del cast, bacchetta compresa.
Roberto Brusotti
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala
[Nel numero di MUSICA di febbraio la recensione della recita del 21 gennaio]