Il Costanzi sceglie l’opera, ripensata per la TV; la Scala si reinventa con un concertone operistico. Chi ha avuto ragione?
A distanza di due giorni, il Teatro dell’Opera di Roma e la Scala di Milano hanno aperto le loro stagioni, il cui prosieguo è ancora tutto da decifrare, visto che l’interesse del governo e del ministro fantasma titolare del Mibact è pari a zero; né in Italia sembra che si abbia il coraggio di intraprendere azioni come quelle annunciate da un gruppo di prestigiosi bavaresi, che hanno deciso di fare causa contro il loro Land (Kulturstaat Bayern, appunto) in quanto la chiusura dei teatri è un atto sproporzionato e, soprattutto, inutile nella lotta al Covid.
Ma torniamo a casa nostra. Bergamo (di cui abbiamo riferito nel numero di dicembre/gennaio della rivista) e Firenze (di cui riferiremo a febbraio) hanno dimostrato che, con fantasia e coraggio, si può fare l’opera lirica anche in queste difficili condizioni: questo, va da sé, non vuol dire che il risultato artistico sia garantito, come le pessime (in modi diversi) regie del Faliero e dell’Otello dimostrano, ma che la bandiera bianca non è l’unica soluzione possibile.
Ancora meglio è quanto proposto dal teatro della capitale: dopo aver rinunciato da molti mesi alla prevista Clemenza di Tito e poi al Don Giovanni di cui avevamo parlato con il Maestro Gatti nel numero di novembre, il direttore milanese e Mario Martone, assieme a Fuortes e Vlad — un team che ha fatto rifiorire letteralmente il Costanzi in questi anni — hanno avuto, in pochissimi giorni, una splendida idea, ossia quella di un Barbiere di Siviglia per la televisione, che utilizzasse tutto il teatro vuoto, che mettesse in scena quindi, più che l’opera rossiniana, l’allestimento della stessa, in una sorta di drammaturgia al quadrato. Premiato dagli ascolti (quasi 800mila persone su Rai3 un sabato pomeriggio), tutto è filato alla perfezione: dall’arrivo di Gatti e Andrzej Filończyk in scooter in largo Beniamino Gigli (ottima idea per costruire una regia intorno alla cavatina di Figaro, sempre delicata), all’uso semplicissimo di un fitto di intreccio di funi, che viene sciolto solo alla fine, fino agli inevitabili ma gustosi e parchi riferimenti all’attualità (“Con la febbre, Don Basilio”: e Gatti tira fuori il termoscanner per controllare lo spaventato Alex Esposito). Un teatro che parla di noi, che fa rimarcare come sia dolorosa l’assenza del pubblico, perché è espulso dalla sua casa: è in effetti il palco reale diventa il balcone di Rosina, la platea l’interno dell’abitazione di Don Bartolo.
Anche musicalmente tutto filava liscio: una direzione trasparente e briosa di Gatti, a volte però caratterizzata da scelte di tempo non facilmente comprensibili, sosteneva alla perfezione una compagnia di canto dove il vero punto debole era il Conte di Ruzil Gatin (che mi ricordavo più spericolato ma anche più coinvolgente in un Turco pavese di qualche anno fa), dalle colorature abborracciate e giustamente privato del grande Rondò finale. In compenso, vero coup de foudre per il fascino vocale e scenico di Vasilisa Berzhanskaya (Rosina), che certamente può migliorare ma già oggi è più che promettente, e di bello squillo e vigoria giovanile il Figaro del già citato Andrzej Filończyk. Quanto a Esposito e Corbelli, che dire? Semplicemente perfetti in due ruoli che calzano loro a pennello, specialmente nel caso del grande artista piemontese, che supplisce all’affievolirsi dei mezzi vocali con l’accrescere dell’intelligenza.
Da Roma a Milano, tutt’altro scenario. Dominique Meyer certamente aveva di fronte a sé una sfida più difficile: quella “del” teatro per eccellenza, in cui è arrivato da nemmeno un anno, in uno dei momenti più delicati della sua storia. Dopo la bella ripresa autunnale, il focolaio di Covid che ha colpito soprattutto il coro, oltre a presumibili pressioni interne ed esterne, lo hanno convinto ad annullare la prevista Lucia (Flórez-Petean-Oropesa, direttore Chailly, regia Kokkos) per allestire un concertone di grandi nomi. Già questa scelta era perdente: come si è visto, fare opera, in un modo diverso, sarebbe stato possibile: ma poi la Scala ha voluto strafare, chiedendo a Livermore — protagonista di varie “prime” recenti — di creare uno spettacolo che evitasse la semplice successione di arie. Un Sanremo della lirica, come qualche perfido l’ha ribattezzato. E quindi ecco gli annunci di “realtà aumentata”, di alternanza di diretta e registrato (poi rivelatasi falsa: tutto era registrato. Chi vi scrive ha assistito alla proiezione Rai dalla platea del teatro, seduto davanti ad un leggio dell’orchestra), ecco la presenza di attori a creare traits d’union ben poco efficaci ed ecco anche l’inserimento di un po’ di balletto: ma pure qui il fatto che sul podio non ci fosse Chailly, ma il pur bravissimo Michele Gamba, dà l’idea dell’importanza che la Scala assegnava a queste parti…
Uno spettacolone di tre ore (ma in Italia la Rai ha sacrificato la decina di minuti della Valchiria perché il tutto era troppo lungo: immagino la gioia dei due artisti, Andreas Schager e Camilla Nylund…) che ondeggiava tra l’estetica del videoclip anni ’90 e il prudente recupero di allestimenti scaligeri dello stello Livermore, Tamerlano e Don Pasquale su tutti, a volte in modo davvero piatto, perché sostituire Nemorino a Ernesto nella Cinecittà anni ’50, se nell’opera originale funzionava benissimo, nella brutta copia ha poco senso. All’inizio dello spettacolo, la ricerca di una drammaturgia era più evidente: proprio il blocco di arie dal Don Carlo, ambientate nel treno di Tamerlano, non era privo di fascino. Ma poi, col passare del tempo, il tutto si sfilacciava in momenti tra loro staccati, tra riferimenti ironici alla politica americana (le arie di Jago e di Riccardo dal Ballo, con un Meli-JFK e la foto di Marilyn) e interventi di attori sempre più spaesati: per tacere dell’imbarazzante pippone della Murgia, risibile per contenuti e massacro dei suoni vocalici della nostra lingua. E anche il predicozzo finale di Livermore, con il paragone tra il concerto postbellico di Toscanini e la serata attuale, davvero era difficile a digerirsi.
Quanto alla parte musicale, i nomi erano certamente impressionanti: ed è difficile riportare qui un giudizio su ognuno. Chailly ha accompagnato con classe, anche se alcuni tempi lentissimi erano difficili da giustificare (specie nel Finale del Tell): si conferma un grande direttore, però, più a suo agio con Puccini che con Verdi. Fra i migliori, certamente la strepitosa Lisette Oropesa — canto perfetto al servizio di un fraseggio acuminato –, il titanico Ildar Abdrazakov, con il suo Filippo II russizzato, travolgente per dovizia dei mezzi vocali e intensità dell’accento (peccato solo per il papillon preannodato!), lo Jago semplicemente perfetto di Carlos Álvarez, che quando è in salute si conferma il miglior baritono di oggi, e anche Benjamin Bernheim, capace di un “Pourquoi me reveiller” talmente bello e malinconico che ho stentato a riconoscere il tenore, bravino e nulla più, protagonista di un recente recital DG.
E poi Marina Rebeka, dal canto sempre meraviglioso, in un “Un bel dì vedremo” infinitamente più rifinito e a fuoco rispetto al suo recital scaligero di due mesi fa (ma continuo a pensare che Puccini non sia il suo autore d’elezione), la grande conferma di Eleonora Buratto (vero soprano lirico all’italiana) e di Francesco Meli, il sorprendente ritorno di un Roberto Alagna dai fiati lunghi e dal legato ineccepibile, senza alcun gigionismo, e la classe infinita di Juan Diego Flórez.
Qualche gradino sotto Sonya Yoncheva, George Petean ed Elīna Garanča, mentre molto deludenti mi sono parsi una Kristine Opolais dalla voce precocemente consunta e una Marianne Crebassa totalmente spaesata, come Carmen al cloroformio. Se Piotr Beczala si conferma, poi, un noioso ragioniere dell’ugola, Vittorio Grigolo offre altri spunti a chi trova che una voce così bella e generosa sia completamente sprecata da una volgarità musicale e da un’anarchia ritmica inaccettabili. Ah, ovviamente c’era Placido: a 80 anni dichiarati, la voce regge solo a tratti, ma il carisma è quello di una volta, anzi accentuato. Gli basta accennare “Nemico della patria” e la differenza fra il mostro sacro e i suoi adepti, più o meno talentuosi, è evidente: che Sant’Ambrogio ce lo conservi a lungo.
Belli, innegabilmente, i momenti di apertura e chiusura: sia per la presenza della più grande di tutte, quella Mirella Freni scomparsa in questo tragico 2020 e che come pochissime altre nella storia del canto ha dato un senso all’idea di bellezza, sia per le riprese dall’alto su una Milano notturna e austera, commovente nella sua ferita dignità. A coronare una produzione complessivamente non soddisfacente ma che, ne sono più che certo, avrà soddisfatto buona parte del pubblico televisivo e che funzionerà benissimo per quella fetta di consumatori culturali avvezzi alla parcellizzazione imposta dal digitale, che ascoltano la singola traccia su Spotify ma neppure sanno più cosa sia un CD. E quindi, probabilmente, ho torto io e ragione la Scala…
Nicola Cattò
Foto: Yasuko Kageyama / OperaRoma; Brescia e Amisano / Teatro alla Scala