RAFFAELE PE & LA LIRA DI ORFEO (Musiche di Monteverdi, Castello, Riccio) controtenore Raffaele Pe La lira di Orfeo.
Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Parco della Musica, Sala Sinopoli, 23 febbraio 2022
In una frequentazione ormai annosa del Parco della Musica e delle tre (e più) sale ove l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia colloca le sue stagioni e gli eventi ad esse collegati, sovente ci è capitato di riflettere sull’architettura geniale e balzana che Renzo Piano — correo al tempo Luciano Berio — ha partorito dal suo cervel onde tenervi le massime stagioni musicali romane. Esternamente lussuosa e affascinante, internamente piacevole, soprattutto per i materiali usati, ma dispersiva e scomoda quanto è possibile. Così giorni fa, fruendo del prezioso concerto di Raffele Pe e della Lira d’Orfeo, ci siamo chiesti quanto tali musiche, strumenti e voci ben diversamente avrebbero figurato in una location d’epoca: a dir poco la Sala Accademica di Via dei Greci, dotata dell’organo che ben sappiamo — e assai consono alle pagine sacre in programma — nonché di un’acustica certo migliore di quella mediocrissima della Sala Sinopoli. Ma tant’è, non possiamo che prenderne atto e magari fantasticare su quali colori, patine, risonanze, echi avrebbe avuto altrove l’inverarsi dei sublimi pentagrammi monteverdiani in programma.
Grazie a Raffaele Pe, che si va sempre più affermando nel panorama ormai nutrito dei primi uomini (controtenori, sopranisti o contraltisti che vogliano dirsi) dediti al repertorio che fu dei castrati dell’epoca barocca. La nuova frontiera da loro aperta è uno dei dati salienti della filologia musicale dell’ultimo ventennio. E vede superati più che i padri nobili della categoria (Alfred Deller e Russell Oberlin), la generazione dei Bowman, dei Ledroit, dei Gall, degli Esswood, dei Manzotti a suo tempo latori di non pochi dubbi quanto ad attendibilità vocale e tecnica. Ora Jaroussky, Fagioli, Orliński, Mehta, Cenčić ed altri consentono ad abundantiam l’inserimento nei cartelloni teatrali o concertistici d’un repertorio ad hoc che va dal Cinquecento a Rossini e Mozart. Raffaele Pe non nasconde di volersi imporre quale maggior voce italiana in tal agone. Premesso che l’indubbia bravura e il successo anche mediatico di costui non ci fanno dimenticare Carlo Vistoli, diremo che la serata ceciliana ne ha messo in luce molti pregi e taluni difetti. Pregi innati sono uno strumento di per sé assai gradevole, non artificioso, mai sforzato, capace di una bella gamma coloristica e di volume abbastanza importante. Sembra tuttavia che alcune zone della gamma non siano immascherate a sufficienza, con l’esito d’alcuni suoni più detti che cantati e d’alcuni pianissimi non molto timbrati. Lo stile e la bellezza del canto monteverdiano erano tuttavia resi in modo eccezionale, seppur talora personale. Del sommo Cremonese s’eseguivano pagine tra le più affascinanti, tratte com’erano dall’Incoronazione di Poppea o dall’Orfeo ovvero da raccolte e collezioni varie. Così era veramente degno di star nel libro “Ariose vaghezze” quello scherzo amoroso che apriva il concerto, “Sì dolce è il tormento”, reso d’una leggerezza e insieme d’una vibrazione esemplari. Diremmo poi che con l’aria di Ottone “E pur io torno qui”, dall’Incoronazione di Poppea, Pe ha subito stabilito il vertice della serata: raramente ne abbiamo ascoltata una lettura tanto intensa, tanto ricca di contrasti, tanto capace di squadernare l’intero mondo di cogitazione filosofica, d’evocazione pittorica, di sublimi trapassi d’affetti in modo così perspicace e avvenente. Meno ci ha convinto l’esecuzione delle due pagine sacre di Monteverdi in programma: il Salve Regina (da Ghirlanda sacra) e il Laudate Dominum (da Selva morale e spirituale), affrontate in un tono appena troppo leggero, quasi frivolo, come intese a ricalcarne il decoro barocco meglio che a scrutarne l’anima orante. Le pagine dall’Orfeo — “Dal mio Permesso amato”, “Rosa del ciel” e “Vi ricordo o boschi ombrosi” — ci facevano desiderare l’ascolto anche di “Possente spirto” e mostravano un Raffaele Pe assai attento a scender nel fondo del dettato monteverdiano, ma un poco esangue nei toni e meno vocalmente straordinario di quanto si poteva sperare. Così anche la celeberrima aria di Arnalta “Oblivion soave” dall’Incoronazione, è stata sì offerta dalla voce di Pe con bellissimo afflato lirico, ma forse troppo spinta ai limiti del sussurro. Nessuna riserva invece per la rara pagina finale, un manoscritto monteverdiano conservato a Napoli nell’Archivio dei Filippini “Voglio di vita uscire”, null’altro che altissima poesia nella musica e nell’esecuzione.
Del complesso La lira d’Orfeo, ossia sette musicisti con strumenti d’epoca, va detto ogni bene possibile, purché alle carenze “naturali” degli strumenti stessi non si guardi tanto per il sottile e soprattutto purché si accetti un’allure saltellante e giuliva (certamente indotta dallo stesso Pe, che del tutto è il demiurgo) non priva di qualche commistione fra la tarantella e il jazz. In fondo son musiche da darsi ed eseguirsi a corte o in nobili consessi e un po’ più di hidalguia (alla Jordi Savall) non guasterebbe. Pubblico folto, plaudente e mai pago di bis.
Maurizio Modugno