“Stravinsky’s Love”. Cavea del Parco della Musica, Roma, 6 luglio 2021
I cinquant’anni dalla morte di Igor Stravinski sono stati ricordati dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con una serata dal titolo Stravinsky’s Love, invero tra le cose più eleganti e originali viste nel gradevole spazio della Cavea del Parco della Musica. Lo spettacolo (in fondo un’anteprima) era a cura di Daniele Cipriani con la consulenza musicale di Gaston Fournier-Facio e la produzione era realizzata insieme alla Fondazione Carlo Felice di Genova per il Nervi Music Ballet Festival 2021, dove l’8 luglio se ne terrà la prima assoluta, poi replicata il 10 alla Rocca Brancaleone per il Ravenna Festival.
Il carattere prevalentemente coreografico dell’omaggio aveva le sue salde motivazioni: forse la parte maggiore del pur vastissimo opus stravinskiano nasce per essere danzata. La compenetrazione tra suono e movimento è per lui una ragion d’essere che va ben oltre l’occasione, per divenire una fisionomia creativa unica e necessitata in pari misura dall’una e dall’altra arte. E da una terza tutt’altro che opzionale, ovvero un contesto figurativo d’eccelso rango qual fu quello a lui permesso (tra gli altri) da Sergej Diaghilev. Sì che, pur senza alcun vero programma filosofico, tale mitica temperie culturale ha avuto ed ha serie ragioni per ambire, quanto al Novecento, al titolo d’opera d’arte totale.
Lo si è ben percepito in questo Stravinsky’s Love per la qualità assolutamente equilibrata dell’esecuzione musicale, delle coreografie e dei giovani danzatori impegnati. Meno giovane, in verità, ma con un glorioso curriculum ovunque noto (dal Bolshoi all’occidente, dalla Scala all’Opéra di Parigi etc.), era qui il solo Vladimir Derevianko. Gli era affidato d’incarnare in scena Stravinski stesso (con un trucco d’impeccabile credibilità), arguto e preciso narratore della propria storia, degli eventi pronubi alla nascita dei balletti in programma, d’alcuni sapidi aneddoti, nonché impegnato in passi danzati o al pianoforte. S’iniziava con la Suite Italienne dal Pulcinella, nella trascrizione per violino e pianoforte dello stesso Stravinski: che Sasha Riva e Simone Repele hanno coreografato e danzato con una (loro) riuscita e vivace stilizzazione delle memorie dell’originale di Léonide Massine. I bei costumi di Anna Biagiotti riportavano in vita anche il bozzetto di Picasso per l’abito di Pulcinella. Al violino la bionda olandese Simone Lamsma e il pianista Massimo Spada, hanno dato alle mirabili elaborazioni pergolesiane il giusto senso del ghiribizzo e della nostalgia. La stessa Lamsma (da sola) brillava per splendido suono e temperamento nelle Tre danze da l’Histoire du soldat, queste coreografate e danzate ex novo da Sergio Bernal Alonso (del Ballet Nacional de España) in un mélange d’esplosiva efficacia tra classico e flamenco. Punto più alto della prima parte dello spettacolo era certo la nuova creazione di John Neumeier Peter and Igor, sulla trascrizione originale di brani da Le baiser de la fée. È un passo a due maschile, non immemore d’altri già in repertorio da anni, ma pieno di sentimenti e di contrasti. Bravissimi Jacopo Bellussi e Alessandro Frola. Ovviamente eccezionale l’esecuzione della Lamsma stavolta con Beatrice Rana al pianoforte, il cui tocco netto e lucido ha fatto subito la differenza.
Non poteva beninteso mancare un’ampia pagina da Apollon Musagète, nella non sostituibile coreografia di George Balanchine: non diremmo che Bernal insieme ad Ashley Buder vi sia stato memorabile, anche perché tal superbo balletto richiede meglio un’esecuzione completa, tale da evocare quell’aura di assorto ed olimpico misticismo che tutto lo contrassegna. Così come poco ci ha convinti un secondo passo a due maschile, su la Berceuse e il Finale da L’oiseau de feu, realizzato da Marco Goecke del Nederlands Dans Theater e danzato da Sasha Riva e Simone Repele, con molti richiami più che alla coreografia originale di Fokine a quella del Lago dei cigni di Mattew Bourne. Mikhail Fokine tornava invece e stavolta direttamente, con alcuni passi da Petrushka, nei quali Derevianko vestiva i panni (un nulla diabolici) del Prestigiatore, con indubbio stacco dagli altri ballerini (Elviretti, Tortora, Beneventi), non più che precisi. E l’interesse correva assai più spesso verso Beatrice Rana, qui da sola e impegnata nella versione per pianoforte del balletto, compito invero arduo e assolto con fulminante scatto di polsi e mani a governare ritmi e sonorità che già cubiste sono.
Chiudeva Le sacre du printemps nella versione per pianoforte a quattro mani del 1913 e nella coreografia di Uwe Scholtz, quella per un solo ballerino (non l’altra per un intero corpo di ballo). Anche senza le proiezioni previste dall’originale, è un balletto di straordinaria forza inventiva. Diremmo che il senso ultimo del lavoro di Scholz è in una presa di coscienza del corpo: che occupa la scena, misura lo spazio, se ne appropria percorrendolo lentamente o freneticamente, si inoltra nelle proprie sensazioni, si percuote per provarne le più estreme, sperimenta la sensualità e la violenza, un’immobilità carica di ferocia, un dinamismo senza remore. E la caduta finale, con un lampo che del corpo spegne la vita, dice tutta la fugacità umana., Più che ad altre edizioni del Sacre (anche se qui Béjart non è certo ignoto), Scholz sembra aver dato seguito al Fauno di Nijinskij e forse ricordato il Minotauro di Daniel Ezralow, ma con fisionomia e stile peculiari. Protagonista era Davide Dato, un ballerino che l’Italia si è fatta sfuggire e che è ora è étoile al Wiener Staatsoper Ballett. A trent’anni questo ragazzo di Biella mostra una potenza tecnica, un’energia fisica e capacità drammatiche assolutamente fuori del comune (il suo Peer Gynt di Edward Clug a Vienna lo ha ben dimostrato) e che qui a Roma ha suscitato clamori da stadio pur in un balletto indubbiamente duro e severo. Va aggiunto che all’esito eccezionale del Sacre, Beatrice Rana e Massimo Spada al pianoforte hanno dato un contributo di pari protagonismo: soprattutto nel suscitare una materia incandescente che non vuole “imitare” l’orchestra, ma che rivendica un’autonomia sonora (percussiva certo, ma anche intensamente musicale; clamorosa, ma anche oscuramente misteriosa) che di rado abbiamo udito ad un tal livello di perspicacia tecnica e intellettuale.
Maurizio Modugno
©Accademia Nazionale di Santa Cecilia / Musacchio, Ianniello & Pasqualini